Parafrasando il titolo dell’ultimo libro di Loredana Lipperini, “Di mamma ce n’è più d’una”.
Trovo che infatti ancora si continui a pensare e a parlare per generalizzazione, come se l’universo femminile, come del resto anche quello maschile, fosse rappresentato solo da un prototipo. Donne clonate e stampate in formato uguale; cambiano il nome, le origini, lo status sociale e familiare, il lavoro ma per il resto, tutte uguali.
Magari rispetto a prima, siamo arrivati a osservare e quindi a credere che il genere femminile abbia delle capacità oltre a quelle circoscritte all’accudimento della prole e alla cura della casa, in virtù degli oramai noti ed oggettivi dati che testimoniano il fatto che le studentesse siano notoriamente più brave negli studi.
Tuttavia oltre non si va.
Il pensiero popolare è rigidamente ancorato ad una visione rigida e stereotipata della donna, quale essere devoto alla famiglia, la cui prima e principale mission è quella di procreare ed occuparsi dei figli, mentre il lavoro rappresenterebbe una risposta a necessità economiche o comunque secondarie alla famiglia.
In realtà, di donne, ce ne sono tante e tutte diverse fra loro.
Continuano ad esserci donne, seppur in numero esiguo, la cui principale ragione di vita è costituita dai figli e che se venisse loro data la possibilità, lascerebbero il lavoro e si dedicherebbero unicamente alla famiglia.
Ma queste non sono tutte.
Esiste, infatti, anche un’altra specie di donne: quelle allergiche ai figli (“no mom”) e all’idea classica e tradizionale di famiglia; quelle che non vogliono pargoli per casa, se non figli di amici e parenti che trovano la porta di uscita dopo un ragionevole e magari circoscritto tempo trascorso insieme. Fra queste, vi sono donne libere che rivendicano con aria trionfante il proprio status single ed altre che, invece, vivono un rapporto di coppia magari anche stabile e soddisfacente ma con il condiviso progetto di rimanere in due. Il Time ha dedicato proprio a loro il titolo della copertina “Having it all without having children” firmato da Lauren Sandler. La sociologa Jessica Valenti, nel suo libro “why have kids?”, addirittura asserisce che “le donne intelligenti non fanno figli”.
Poi vi sono donne che cercano di bilanciarsi fra questi due poli alla perenne ricerca di un baricentro, per qualcuna spostato più verso la famiglia pur non rinunciando al desiderio di realizzazione e autonomia professionale, e per altre più verso il polo professionale con ambizione di carriera, pur non rinunciando al progetto di maternità.
Forse sono proprio queste le donne che fanno fatica a trovare più delle altre una propria collocazione. Quando si rapportano e confrontano con le donne-mamme della prima specie, si sentono distanti perché la loro posizione è aperta su più fronti e i figli rappresentano una parte del loro mondo ma non l’unica e la sola importante. Quando, dall’altra parte, si confrontano con il mondo del lavoro, trovano comunque un interlocutore distante che parla una lingua diversa, in quanto le richieste e le aspettative nei loro confronti non contemplano il bilanciamento famiglia-professione. Per l’azienda, se la donna lavora duramente e suda “sette camicie”, chiaramente con il “doppio sforzo” (rispetto agli uomini), come scrive Odile Robotti nel suo libro “Il talento delle donne”, allora è accettabile per quanto l’esame non finisca mai. Tuttavia non appena manifesta un cedimento, osa chiedere un permesso per i figli, maggiore flessibilità o anche solo ricorda che ha anche una famiglia, allora il rischio di passare per “la solita femmina” (chiaramente in senso dispregiativo), è molto alto e le ripercussioni sul fronte lavorativo non sono mai positive.
Purtroppo la donna di oggi è intrappolata in schemi stereotipati che la vedono ancora “tutta casa e famiglia” e laddove, al contrario, investe anche sul lavoro magari con spirito di ambizione e di carriera viene vista come “fredda” e “arrivista”, un alieno tanto per gli uomini quanto per le altre donne. Per non parlare di coloro che non contemplano di avere figli: continuano ad essere percepite come “strane” e/o “diverse”.
Forse qualche passo in avanti si potrebbe iniziare a fare se iniziassimo a pensare alle donne come a tante individualità diverse con caratteristiche, obiettivi e approcci di vita diversi, correggendo il virus mentale della generalizzazione che induce a ragionare in modo distorto.
Le generalizzazioni costituiscono una trappola nella misura in cui condizionano sia le donne stesse, indotte ad aderire allo schema sociale loro imposto, sia il mondo del lavoro, che continua a valutare le donne sulla base del genere di appartenenza piuttosto che soffermarsi ad osservare ed eventualmente a investire sulle risorse e sulle potenzialità individuali.
2 commenti
appunto, esistono donne che vogliono essere madri e donne che non vogliono. C’è anche chi non voleva e poi cambia idea. Sono tutte scelte rispettabili
“le donne intelligenti non fanno figli” è una provocazione un po’ stupida (ma fa vendere), credo che ildiscotso della Valenti (che ha figli, mi pare) è un po’ più complesso