Scrittrice, poetessa e artista multimediale, dall’inizio degli anni Novanta ha creato opere sperimentali tra scrittura, arti visive e nuovi media, usando sia il video, che il computer, che la fotografia digitale.
Caterina Davinio, un nome che significherà moltissimo per coloro che si muovono in rete dagli albori di Internet in Italia. Foggiana del ’57, ha vissuto a Roma dove ha compiuto gli studi di lettere e storia dell’arte, allieva anche di Giulio Carlo Argan, Alberto Asor Rosa e Walter Pedullà, laureandosi in Letteratura Italiana. Dal 1997 vive in Lombardia, a Monza e a Lecco, operando a livello internazionale.
Difficile parlare della sua vasta produzione artistica e multimediale innovativa e variegata. Autrice di romanzi, libri di poesia, saggi, per i quali ha ottenuto riconoscimenti anche all’estero; sue opere poetiche e saggistiche sono tradotte in inglese. Negli anni Ottanta ha utilizzato anche tecniche tradizionali, come la pittura, partecipando a mostre personali e collettive.[1] Il suo lavoro è stato presentato in molti Paesi.
Con una serie di iniziative culturali ha contribuito a creare un ponte tra la poesia sperimentale e il circuito delle arti elettroniche. La net-poetry italiana è nata nel 1998 con il suo sito Karenina.it. al quale parteciparono molti famosi artisti dei nuovi media.
Su Wikipedia ti definiscono scrittrice, poetessa molto attiva nel digitale.
Cosa prevale nel tuo lavoro di scrittura, la poesia o il digitale?
Nel mio lavoro poesia e digitale viaggiano su sentieri che spesso si sono intrecciati. Prevale la poesia in senso lato, e quella digitale è poesia. Se con “ poesia” intendi invece solo poesia lineare, essa ha di sicuro preceduto quella digitale nella mia esperienza: ho cominciato a scrivere quattordicenne, nei primi anni Settanta, e non ho smesso neanche nei periodi più bui, come quelli della tossicodipendenza, negli anni Ottanta, quando non sapevo neppure di essere un poeta, non possedevo nulla e non riuscivo a occuparmi di pubblicazioni ed editori; eppure è stato un momento fecondo per la mia poesia e i risultati si sono visti a distanza di decenni, con il successo de Il libro dell’oppio, per esempio, scritto tra il 1975 e il 1990, o con Fatti deprecabili, composto dal 1971 al 1996, di prossima uscita, che ha già ricevuto positivi riscontri critici.
Il digitale è venuto dopo, all’inizio degli anni Novanta, quando si è infittito il contatto con i circuiti dell’avanguardia internazionale e ho cominciato a lavorare da pioniere con il computer, come artista e curatrice. È stato il digitale a darmi la notorietà in Italia e all’estero, tuttavia anche allora non ho abbandonato la scrittura lineare, infatti la maggior parte della mia narrativa pubblicata posteriormente è nata negli anni Novanta, come i romanzi Còlor còlor, del 1998, Il sofà sui binari, del 2013, ma scritto nel 1997, o Sensibilia, di prossima uscita, scritto nel lontano 1993.
La maggior parte della mia produzione narrativa trova origine in quel periodo esaltato e folle, ed è ancora inedita o in lunga fase di elaborazione. Il tempo valorizza le cose buone, la sua profondità aggiunge stratificazioni plurime a uno scritto, corrispondenti alle varie epoche storiche che esso attraversa, e tra poesia e digitale nel mio mondo non vi è conflitto né sopraffazione, ma commistione, salutare contaminazione e interazione, in un’ottica sperimentale, di ricerca, che investe sia la produzione lineare, sia quella digitale.
Come si possono combinare due mondi così apparentemente lontani come poesia e tecnologia?
Si possono combinare in molti modi diversi e ogni artista ha tracciato una propria strada personale a riguardo. Si può integrare la parola poetica nell’arte video, nell’animazione di computer grafica, in innumerevoli possibilità offerte dall’installazione e dalla rete. Non credo che siano mondi lontani: la poesia fa parte dell’essere umano e del linguaggio, la tecnologia della società che si sviluppa nel tempo; sono due universi destinati a marciare insieme contaminandosi, chiamati a costruire insieme la nostra storia.
La net poetry è nata con te in Italia. Ce ne parli? Come ci sei arrivata? Che percorsi hai fatto?
La net-poetry è un’arte basata sul network, che per me è un circuito aperto di persone reali che comunicano attraverso la rete scambiandosi esperienze “poetiche” e costruendo eventi di comunicazione, che poi vengono convogliati in installazioni e performance reali o tra reale e virtuale. È una forma d’arte che usa come materiale proprio la materia fluida della comunicazione in rete, esattamente come altri potrebbero usare il marmo, il legno o i colori. Essa si caratterizza come arte aniconica basata sul flusso e sulla durata, come “processo”, di cui eventuali immagini e testi presenti non sono che tracce.
Le prime esperienze, dal 2000 – 2001, sono state performance “multilocate” e collaborative, che numerosi artisti realizzavano contemporaneamente, in modo coordinato, in più luoghi anche molto lontani del pianeta, usando materiali digitali e comunicazione informatica. Alcuni di questi eventi hanno coinvolto centinaia di poeti internazionali e hanno trovato spazio nella Biennale di Venezia e mostre collaterali.
Quei contesti espositivi prestigiosi mi hanno stimolata a creare qualcosa di inedito e anti-istituzionale, un po’ come se fossi un clandestino, un sabotatore infiltrato nel mondo delle arti per fare il maggior numero di danni possibili all’arte acclamata e ufficiale: è in questa prospettiva che ci sono arrivata.
Il mio percorso parte dalle avanguardie storiche e dalla neoavanguardia, dalle esperienze della poesia visiva, sonora e performativa, che in quegli anni cominciavano a confrontarsi con la multimedialità. È stato naturale spingermi un passo oltre ed esplorare come alcuni concetti, quali quello di performance, di happening, di integrazione di elementi verbali, visivi e cinetici, avrebbero potuto svilupparsi e mutare in contatto con strumenti nuovi che la tecnologia metteva a disposizione.
Gli anni Novanta sono stati rivoluzionari per le tecnologie, hanno visto l’affermazione a livello di massa di Internet e del digitale, ed era per me fisiologico tentare strade pionieristiche; c’erano spazi per fare cose di cui si avvertiva l’esigenza e che dovevano essere fatte; il mondo intorno era assetato di esperienze nuove, così era facile essere proiettati dal proprio piccolo universo di giovane artista alle ribalte più ambite, come quelle della Biennale, del Palazzo delle Esposizioni di Roma e di varie gallerie pubbliche di arte moderna e contemporanea.
Ricordo quei tempi come una condizione di rinascita, umana, prima che artistica, molto coraggiosa e attraente per me che mi portavo sulle spalle il fardello di un decennio vissuto tra eccessi, emarginazione e disordini di ogni tipo, dove avevo cercato ed ero abituata a emozioni “forti”, estreme. Ho quindi proiettato nel mondo dell’arte quella specie di allenamento all’estremo, al rischio, a essere in una sorta di guerra perenne, quel voler contraddire i valori consolidati della società: mi resi conto di essere divenuta fortissima.
Pochi gli italiani attivi nella poesia digitale?
Non sono molti. La maggior parte stenta a staccarsi dal testo lineare anche quando approccia vari strumenti tecnologici: forse si teme di manipolarlo troppo, di destrutturarlo, si ha paura di integrarlo nella sintassi dello strumento elettronico, invece è proprio questo che si dovrebbe fare: integrare la parola in una nuova sintassi che si coniuga in vari modi con le tecnologie.
La paura di intaccare l’estetica del testo tradizionale è ciò che impedisce lo svilupparsi di una nuova estetica che è quella dell’arte elettronica, che analizza l’oggetto artistico come processo, a prescindere dalle qualità estetiche dell’immagine e del testo in sé.
Il discorso sarebbe complesso anche perché all’interno dell’arte elettronica si sono sviluppate negli ultimi decenni – quando la stessa è uscita dai circuiti alternativi e avanguardistici per entrare in università e accademie di belle arti – correnti molto conservatrici che hanno riproposto estetiche tradizionali nell’immagine elettronica, la ricerca del “bello”, snaturando la prospettiva dell’avanguardia degli anni Novanta, che aveva molti punti di contatto con una visione antagonista a livello sia estetico, sia socio-culturale.
Non è la “bellezza” dell’immagine elettronica che deve interessarci, ma il suo potere di scardinare le estetiche tradizionali, per costruirne di nuove, modellate sulla società che cambia.
Posso suggerire, a chi vuole sapere di più della net-poetry, il libro, con accluso dvd, Virtual Mercury House. Planetary and Interplanetary Events, edito da Polìmata di Roma: vi troverà molti materiali, documenti su progetti della Biennale di Venezia, scritti teorici e interviste per una definizione della net-poetry e per capire ciò di cui stiamo parlando meglio di quanto possa emergere in una semplice intervista.
La tua è una letteratura frastagliata che copre vari ambiti sociali. A quale libro sei maggiormente affezionata?
Sì, la mia è una letteratura che attraversa molti contesti, tecniche, ma in tutte le sue espressioni ha un denominatore comune: tenta di sfuggire a una visione conciliatoria e riconcialiata della realtà, sia nel campo dell’arte elettronica, sia in quello della scrittura lineare. Diciamo pure che sono rimasta una cattiva ragazza… La mia è una scrittura eversiva in ambito lineare come in quello digitale.
Per quanto riguarda i libri, sono una lettrice di classici: Dostoevskij, Tolstoj, Flaubert, Nietzsche, Svevo, Musil, Baudelaire, Rimbaud, Lorca, autori della Beat Generation, e tanti altri.
Tuttavia c’è un libro che ha un significato particolare nella mia vita, ed è On the Road di Jack Kerouac: con quel libro nello zaino sono andata via di casa a diciotto anni, per vagabondare facendo l’autostop, come tanti giovani in quegli anni, sgomentando la famigliola piccoloborghese (mamma insegnante, padre colonnello), ma con immensi sogni e voglia di andare. Ecco perché ancora adesso voglio bene a quel libro e mi sento un po’ “sulla strada”… non solo perché, come ognun sa, mi piace viaggiare in modo alternativo (è una mania che mi ha portato ai quattro cantoni del globo, soprattutto in India e nel sud-est asiatico, luoghi mitici di perdizione e ritrovamento di sé stessi), ma come metafora esistenziale che ha caratterizzato la mia vita in generale e l’esperienza nell’arte, non integrabili, non soggiogabili ai valori dominanti della società, come i personaggi di quel libro.
Credi che con internet sia finito il ruolo della carta e dei libri?
La morte del libro sarà una morte lenta… Certo Internet fornisce possibilità infinite di ricerca e informazione, che con il tempo soppianteranno il libro. Ma ancora non è giunto quel momento e il libro ha tuttora vita più lunga rispetto alle possibilità offerte dai nuovi media, ed è proprio questa sua durevolezza rispetto a tutti i supporti digitali che lo rende non sostituibile come luogo della conservazione della cultura, luogo in cui offriamo ai contemporanei e tramandiamo ai posteri quello che abbiamo pensato e costruito.
Però anche Internet sta cambiando: sono stati creati archivi che conservano esperienze rilevanti sorte nella rete e quindi rappresentano possibilità di sopravvivenza del nostro pensiero affidato alla rete. In fondo è ciò cui un artista ambisce: l’essere letti, amati… e, specie per chi non è artista di consumo, è importante raccogliere i propri lettori ed estimatori non solo tra i contemporanei, ma tra i posteri di tutti i tempi, non è forse così? Quando anche Internet avrà intrapreso questo ruolo, non solo di diffusore e propagatore, ma di conservazione della cultura, soppianterà il libro, ma per ora non è il momento. Quindi il libro vive.
E la poesia salverà il mondo? O le tecnologie la prevaricheranno?
Credo che nulla prevaricherà la poesia, la più inutile e grande delle arti. Magari cambierà forma e prenderà mille forme, anche tecnologiche.
Purtroppo la poesia non basta da sola a salvare il mondo: ci vogliono impegno e, se occorre, la lotta, la politica. La poesia è cosa fragile e può morire… di guerra, di violenza, di ignoranza, o può anche sopravvivere, per denunciare, essere essa stessa forma di lotta… Ma da sola non basta e comunque, anche se decidiamo di usare la poesia come arma, per cambiare, salvare il mondo, ricordiamoci che ciò è una scelta e che dipende da noi, che fuori dalla parola c’è il mondo e che contaminare la purezza della parola con la vita è atto blasfemo, ma fecondo di sviluppi, temerario e necessario.
25 marzo 2015