Le donne italiane, dalla prima all’ultima, non hanno accesso ad una legge dello stato, che regola il professionismo sportivo.
Questo articolo dedicato alle discriminazioni nello sport femminile non può che partire da un ennesimo meraviglioso trionfo: Francesca Dallapè e Tania Cagnotto hanno scritto ancora, per la settima volta consecutiva, la storia dello Sport Europeo e Italiano, vincendo l’oro. Provate a immaginarle sulle pagine di un libro, queste sette medaglie d’oro, e provate a immaginare quanto sudore, quanta dedizione e quanti sacrifici ci sono dietro ogni pagina scritta per arrivare a quel risultato…
Eppure, non basta. Non basta che lo Sport Femminile in Italia rappresenti una straordinaria eccellenza. Non bastano le medaglie che arrivano da scherma, volley, softball, rugby, ginnastica, tennis: non basta il coraggio delle calciatrici che mandano a casa il presidente che dice in una riunione “Basta dare soldi a queste 4 lesbiche”. E nemmeno che esista da 14 anni un’associazione (che mi onoro di presiedere) che si chiama Assist Associazione Nazionale Atlete. Le discriminazioni di genere, lo sappiamo bene, sono lì, immobili, solidissime, ferme come il più profondo dei chiodi nella pelle delle donne. Lo Sport, purtroppo, non fa eccezione, anzi.
Ecco la più incredibile: le donne italiane, dalla prima all’ultima, non hanno accesso ad una legge dello stato, la L. 91 del 1981 che regola il professionismo sportivo.
Questa legge, che offre giuste tutele e regole a chi fa dello sport il proprio reddito prevalente, dice che a decidere quali siano le discipline professioniste debba essere il CONI che, a sua volta, ha demandato alle Federazioni Sportive Nazionali. E le Federazioni, a oggi, hanno deciso le discipline professionistiche siano: calcio (campionati fino alla Lega Pro), basket (fino alla serie A2), ciclismo (gare su strada e su pista approvate dalla Lega ciclismo), motociclismo (velocità e motocross), boxe (I, II, III, serie nelle 15
categorie di peso) e golf. Con un piccolo “dettaglio”: sono TUTTE maschili.
Donne dilettanti, quindi: dalla prima all’ultima. Poco importa se si chiamino Idem, Pellegrini, Cagnotto e Dallapè, Panico o Bianchini. Loro, per lo Stato italiano, lo sport lo fanno “per diletto”. E se vi tranquillizza pensare alcune di loro sono coperte di sponsor, vi ricordo che, dietro queste rare eccezioni, ci sono migliaia di sportive sconosciute e senza diritti che pure praticano lo sport ad ottimo livello come un lavoro, per anni e anni.
Io l’ho vissuto sulla mia pelle perché ho giocato a pallavolo 14 anni vivendo di quello: 6 ore di allenamento al giorno, divisa obbligatoria, niente sabati e domeniche, regole alimentari e persino l’orario di ritirata la sera. Niente male per un “diletto” che aveva tutte le caratteristiche di un lavoro subordinato e che
veniva pagato con un compenso, chiamato fittiziamente rimborso spese.
Eppure non è un movimento di nicchia: lo sport ha 14 milioni di praticanti, 7 milioni di tesserate e tesserati e rappresenta il terzo aggregato industriale di questo Paese. Una realtà produttiva che costituisce circa il 3% del Pil.
Tuttavia, a dispetto di questa rilevanza, il caos regna: le donne (tutte) e gran parte degli atleti maschi (ad eccezion fatta per le sei discipline “pro” citate prima) regolano le loro relazioni con il datore di lavoro (l’associazione sportiva) con accordi non riconosciuti dall’ordinamento sportivo. Si affidano a
scritture private che, non di rado, contengono spesso cose assurde. Come la clausola anti-maternità che potrebbe prevedere il licenziamento in tronco, nel caso l’atleta rimanga incinta. In pratica, a meno che tu non sia una atleta Azzurra (il CONI, solo da qualche anno e dopo le proteste di Assist e di alcune
coraggiose atlete, ha imposto la tutela della maternità alle Federazioni, ndr), se vuoi fare lo sport come lavoro devi rinunciare a essere madre o rischiare il “licenziamento”.
E ancora. I montepremi e borse di studio pare siano spesso inferiori a quelli maschili. La campionessa di ciclismo su pista Vera Carrara mi raccontava un paio di anni fa: “L’oro dei mondiali vale 20 mila euro contro gli 80 mila della gara maschile”. Un quarto. E se non parliamo di soldi, parliamo di organizzazione: nel calcio femminile si è sfiorata l’indecenza. La finale di Coppa Italia, il mese scorso, è stata giocata in un campo che non aveva l’erba tagliata e le atlete hanno dovuto tracciarsi le righe durante la gara! La premiazione, fatta grazie al tavolo di un bar.
Tra le cattive pratiche, a danno dei dilettanti (maschi e femmine), l’arcaico istituto giuridico definito da molti, in letteratura, “la schiavitù degli atleti”: il cosiddetto vincolo sportivo. In pratica l’atleta è “merce di
scambio” perché se vuoi cambiare squadra hai l’obbligo di avere il consenso del presidente della società di appartenenza, persino se sei minorenne. Risultato: gli atleti vengono scambiati a titolo oneroso, anche se questa pratica non dovrebbe essere consentita.
Nel professionismo, a risolvere tutto, ci pensò un calciatore belga che, appellandosi al diritto di non potersi vedere limitato il diritto di circolazione, essendo a tutti gli effetti un lavoratore, fece causa e vinse. Da
allora, gli atleti professionisti sono liberi di fare accordi, gli atleti dilettanti no.
La causa di queste storture sono regole antiche se non , in alcuni casi, totalmente assenti. Il tema, però, non riguarda solo l’emersione del falso dilettantismo e il riconoscimento di diritti sacrosanti.
Il punto riguarda soprattutto il riconoscimento del VALORE SOCIALE dello Sport e delle Associazioni Sportive che in Italia reggono gran parte del sistema. Il dilettantismo, quando è vero e non un travestimento del professionismo, va tutelato e sostenuto, perché è lì che i giovani trovano insegnamento,
esperienze, competenze uniche. In Italia non accade affatto, nonostante lo Stato dia al CONI circa 400 milioni di euro ogni esercizio finanziario.
L’assenza di una riforma che porti a una legge quadro nazionale e l’assenza di un Ministro dello Sport dimostrano una sottovalutazione inaccettabile.
Sottovalutazione che stride con il 10% della popolazione italiana che soffre di obesità e dove almeno il 42,4% degli uomini e il 26,6% delle donne è sovrappeso. E dato che in spese mediche per malattie cardiovascolari e diabete se ne va il 6,7% della spesa pubblica, per un costo sociale di 8,3 miliardi
l’anno…
Chiudo con una “perla”: dalla nascita dello sport organizzato in Italia non c’è stata mai una presidente del CONI. Tra le Federazioni, tranne un’eccezione di due mesi, stesso triste primato. 45 Federazioni, 45 uomini. Non serve aggiungere altro.
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https://www.change.org/p/coninews-donne-nello-sport-dilettanti-per-regolamento-nowomannopro
4 commenti
Invito tutti quelli che hanno messo vi piace a questo articolo (GRAZIE INFINITE A TUTTI!!!) a firmare questa petizione. Grazie
Luisa
https://www.change.org/p/coninews-donne-nello-sport-dilettanti-per-regolamento-nowomannopro
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