Quel fiume è la notte racconta di Lea, giovane donna che dopo un aborto si ritrova in una voragine di dolore, di interrogativi a cui non trova risposta.
Ho letto Quel fiume è la notte, bellissimo libro di Flavia Piccinni appena uscito e candidato al premio Strega da Dacia Maraini e Lidia Ravera. Una scrittura densa, precisa, che non perde mai il ritmo e che in ogni pagina emoziona e travolge.
Racconta di Lea, giovane donna che dopo un aborto si ritrova in una voragine di dolore, di interrogativi a cui non trova risposta. Racconta del suo viaggio in India, attraverso contraddizioni e disincanto, miseria e inquietudini, di un viaggio nelle viscere del mondo e di se stessa.
Ne parlo con l’autrice proprio oggi che dall’Europa ci arriva l’ennesimo richiamo all’applicazione della 194 e al rispetto della salute delle donne.
Questo libro è un viaggio in India, quanto ci sei tu dentro questa India?
C’è molto del mio viaggio in India e molto delle letture sull’India, di Tabucchi, Pasolini, Moravia, è un’India a metà tra quella che avevo conosciuto e quella che ho incontrato. E’ un’India che mi ha sorpreso, diversa dal cliscè un po’ borghese dell’India mistica che ti porta altrove, in una dimensione unicamente spirituale. C’è il mito e c’è la realtà. Ho voluto raccontare la differenza tra la percezione del sogno che abbiamo delle cose e quello che ci troviamo davanti. In India non c’è il nostro concetto di spiritualità, c’ è un’idea di mondo completamente diversa dalla nostra ed in questa diversità che Lea si ritrova, in un mondo che non poteva immaginare, in un paese che non ha paura a tirare fuori le sue viscere e proprio per questo la aiuterà a fare altrettanto.
Cosa sovrasta l’India, l’indifferenza del mondo o l’indifferenza degli indiani?
Entrambe le cose. Gli indiani hanno la capacita e l’indolenza di accettare tutto come viene. Questo non appartiene a noi occidentali e nemmeno a Lea, che è cresciuta pensando di poter forgiare il suo destino. Quando Lea incontra queste donne e uomini che si fanno scivolare tutto addosso, che si lasciano attraversare dalla vita come fosse un fiume, lo trova incomprensibile ma in questo incontro accetta la sua imperfezione, accetta di essere quello che è, di non tenere il proprio dolore in un cassetto ma dargli respiro e sopravvivere al lutto.
Sulla quarta di copertina c’è una frase: Siamo la nostra capacità di sopravvivere ai lutti, nient’altro”. E’ così?
Io credo di si, credo che la formazione arrivi attraverso la capacità di sopravvivere al dolore. Questo è un libro che parla di aborto ma cerca di dirti che i dolori della perdita sono tutti uguali.
Un lutto è un’ esperienza dalla quale si esce trasformati, dalla quale si rinasce. Tutti noi abbiamo delle sofferenze, c’è chi sprofonda e chi metabolizza e riesce a girare la ruota.
Di tutti i lutti, quello dell’aborto, quando viene vissuto come tale, è forse il meno indagato, il meno elaborato. Non è anche questa un forma di violenza che condanna le donne all’eterna espiazione?
E’ esattamente così. Non dobbiamo far credere alle donne che l’aborto vada messo nel proprio bagaglio di colpe. Ho conosciuto tante donne che raccontano di vergogna e solitudine nonostante la consapevolezza di non aver sbagliato. Avere la legge non vuol dire avere risolto un problema. II problema personale si risolve parlando di quello che c’è dopo, quando tu la scelta l’hai fatta e sei lasciata sola.
Non per tutte le donne l’aborto è un trauma, come per Lea che addirittura si sente un’assassina. Perché hai deciso di raccontare la storia di un senso di colpa così grande in un momento in cui i cattolici integralisti osteggiano il lavoro dei consultori e l’ aumento dell’obiezione di coscienza negli ospedali sta limitando la libertà delle donne e ci riporta ai tempi degli aborti clandestini?
Lea è una donna convinta che la scelta che ha fatto sia giusta ma dentro di lei c’è qualcosa che è stato installato dalla cultura in cui vive, e raccontare questo “dopo” è importante. Accettare che una volta abortito ci sia un naturale periodo di metabolizzazione in cui si sta male permette di guardare avanti. Ma in questo periodo bisogna poter parlare di sé, non rimanere da sole, sapere che non è un buco nero in cui devi morire, ma qualcosa da cui devi uscire.
Per Lea, la protagonista, non vi erano difficoltà economiche insormontabili né solitudine, la sua scelta di abortire avviene all’interno di una coppia innamorata e con un compagno che vuole questo figlio. Quanto conta nel malessere di Lea lo stigma sociale che ancora oggi punta il dito contro una donna che non vuole diventare madre, in un momento della sua vita o per sempre?
Questo libro è frutto di tanto ascolto, e ho raccontato quello che più mi ha toccato nel profondo. In Lea c’è un doppio tabù, quello della scelta di non diventare madre e lo stigma sociale che avvolge ancora oggi l’aborto.
In Italia abbiamo uno che si è candidato dicendo “La prima cosa che farò è abolire la legge sull’aborto”. Credo che non lo voterà nessuno.
Eppure c’è reticenza a parlare di aborto.
Per quanto abbiamo una legge, il 40 per cento degli ospedali non la rispetta. L’orrore che si ha nell’affrontare questo tema è profondissimo e io volevo raccontare questo, di questo orrore dobbiamo parlare. Quando si parla di aborto la situazione non è mai limpida, è come quando a primavera ci sono le nubi di polline in cui non si vede niente, e in questa nube si perde la legge, si perde la scelta della donna.
Lea non ha particolari remore nei confronti di quello che ha fatto ma ha qualcosa di annidato nel suo inconscio che le dice hai sbagliato. Lea sa di non aver sbagliato, ma quella voce c’è.
Non ha sbagliato ma prova vergogna per averlo fatto, e in questa distanza tra quello che percepisce e quello che animalescamente prova volevo mettere la penna.
Cesare, il compagno, lascia Lea dopo l’aborto. C’è più egoismo o fragilità nel suo personaggio?
Fragilità. C’è più la messa in discussione di se stesso in quanto uomo, che si riconosce nella coppia ma in un’idea di famiglia che Lea gli proibisce e gli frantuma. Lui si sente perduto, come uomo e padre, quando il suo bozzetto familiare si scioglie e lo porta altrove.
Anche il dolore è un tabù anche all’interno della coppia?
Penso di sì. Penso che in questa società che ci vuole sempre a mille, sempre presenti e combattivi, i momenti di fragilità si tende a nasconderli.
Nella coppia si desidera essere sempre forti, senza mai paura o vergogna ed è anche questo un tabù, non solo all’interno della coppia ma nella società intera.
L’Europa ci condanna per violazione del diritto alla salute delle donne, ci richiama al rispetto della 194, ma dal ministero della salute ci dicono che va tutto bene. Perché questa negazione?
Nessuno ha interesse a far funzionare la 194. La questione è complessa, penso ci sia un miscuglio tra la pressione della Chiesa e la necessità dello stato italiano di tutelare in parvenza la situazione femminile. Da questo miscuglio nasce l’obiezione di coscienza, nasce la sanzione pecuniaria che ha sollevato le proteste in questi giorni, nasce il fatto che c’è una legge da 40 anni e nessuno si preoccupi di farla rispettare. E’ indegno che lo stato non ti permetta di abortire e nello stesso tempo ti punisca se trovi altre strade, obbligata dallo stato stesso.
La pillola del giorno dopo non è un farmaco abortivo ma un contraccettivo che inibisce la fecondazione. I farmacisti sono tenuti per legge a venderla senza ricetta alle maggiorenni eppure molti si rifiutano mettendo in difficoltà le ragazze e le donne che non conoscono i propri diritti.
Non dovrebbero essere proprio coloro che sono contrari all’aborto a promuovere l’uso di questo contraccettivo per evitare appunto gravidanze indesiderate?
Io sono figlia e nipote di farmacisti e so che a monte di questa presunta obiezione c’è anche molta disinformazione tra i farmacisti, a cui il ministero dovrebbe dare le comunicazioni chiare e univoche; quando si toccano i temi sociali bisogna evitare che il farmacista strumentalizzi le circolari seguendo la propria visione personale del mondo, bisogna vigilare e sanzionare chi commette un illecito, perché di illecito si tratta.
Ci sono due ordini, quello dei titolari di farmacie e Federfarma, che dovrebbero intervenire sul farmacista che sbaglia. I farmacisti devono rendersi conto del dolore che provocano.
Non è accettabile che una ragazza che può risolvere il problema con una pillola si ritrovi invece incinta, invischiata in una giostra allucinante da cui uscire frantumata.
Una frantumazione straziante, come quella di Lea, appunto, che Flavia Piccinni ha saputo donarci in pagine che sono umanità e poesia.
fonte : http://27esimaora.corriere.it/articolo/aborto-quel-senso-di-colpa-da-indagaree-da-riconoscere-non-da-sole/