Maurice Ravel e la sua Tzigane: l’archetipo del gesto violinistico nel Novecento, ispirato da una donna di talento.
Sono a Parigi, per due giorni… questa sera sono in casa di Prunières, per un concerto.
M. Ravel
Parigi 1922, è una sera di Aprile che prelude al tepore ammiccante della primavera. La città è una straordinaria fucina di idee, una calamita incessante di intenti creativi, tanto che non si contano più i circoli culturali e i salotti dove incontrare gli spiriti più animosi e brillanti, qui giunti da ogni dove. E’ nel sesto arrondissement che la scrittrice americana Gertrude Stein riceve, nella sua frequentatissima casa, personaggi come Henri Matisse e Pablo Picasso; ci sono quelli della generazione perduta, Hemingway, Fitzgerald e sua moglie Elda, Cocteau, Buñuel, Ezra Pound. C’è persino l’irlandese James Joyce, di cui solo Sylvia Beach, titolare della libreria Shakespeare and Co, al numero otto di Rue Dupuytren, intende pubblicarne il romanzo, quell’incredibile groviglio di intrecci e pensieri che è l’Ulysses. Sotto questo cielo eccentrico e irriverente, si rimane affascinati dall’idea della sperimentazione artistica e dalla ricerca di nuovi codici espressivi che siano al passo con il divenire accelerato e convulso dei tempi: sono gli Années Folles della città ombelico del mondo, segnati dal rombo dei motori e dalle contaminazioni tra linguaggi innovativi e culture differenti. Nell’incanto delle luci dei cafés, nell’irresistibile atmosfera dei boulevards alberati che pullulano di gente chiassosa fino a tarda notte, nel fascino che esprime lo slancio della gioia di vivere allo stato puro e il desiderio di libertà, tra un balletto di Diaghilev e un’orchestrina di jazz, si percepisce che proprio qui sta per schiudersi, appena pochi anni dopo la tragedia della “grande guerra”, una stagione irripetibile per le avanguardie artistiche, non ancora presaga del dramma angoscioso dei conflitti futuri. Anche questa sera, nel salotto di Henry Prunières, storico e critico musicale, tra i fondatori della Società Internazionale per la musica contemporanea, si respira aria di nuovo, attento come egli è alla rivelazione di figure emergenti che si affaccino con non poca fatica nel nascente contenitore della contemporaneità sonora. I suoi ospiti si raccolgono per ascoltare il compositore ungherese Bela Bàrtòk , al pianoforte, e la straordinaria violinista di origini magiare Jelly d’Aranyi – nipote di Jozsef Joachim, il fidato violinista di Brahms – alle prese con la prima sonata per violino e pianoforte composta dallo stesso Bàrtòk e a lei dedicata. Alla performance dei due musicisti assiste, con il consueto garbo, il compositore Maurice Ravel, già celebrato pubblicamente e coinvolto, per l’occasione, come il distinto “girapagine” della partitura pianistica. Lo accompagna Francis Poulenc che segue le voltate della partitura violinistica mentre seduti, tra gli altri amici, s’intravedono Strawinsky, Szymanowsky, Milhaud e Honegger, tutte vivaci ed eclettiche personalità musicali pronti a elogiare la composizione e l’interpretazione dei due. Tuttavia, l’attenzione degli spettatori si focalizza sulla giovane donna che, al termine del programma ufficiale di concerto, inizia a improvvisare, con perturbante avvenenza, una serie di motivi propri della tradizione tzigana. Profondamente affascinato dallo sguardo, dal temperamento e dall’estro della violinista, Ravel non è mai pago del virtuosismo esasperato della giovane e le chiede, ancora una volta, e una volta di più, bis a ripetizione. Così, per molta parte della serata.
Ravel è un uomo ormai di mezza età, elegantissimo nei modi, intento alla ricerca profondamente misurata dell’estetica artistica e proteso verso la realizzazione filosofica del “Bello” assoluto in musica. Se le sue tematiche sono attinte da radici della tradizione colta letteraria e da contaminazioni tra differenti generi musicali, non manca in lui la profonda fascinazione per le sonorità mutuate dal gusto per le innovazioni timbriche e ritmiche, derivate dal mondo del nascente jazz, dall’esotismo e dai motivi dell’universo popolare, specie spagnolo. Attualmente è impegnato dalla lunga rifinitura della sonata numero due per violino e pianoforte, quel fantastico Blues del secondo tempo che è insieme costruzione minuta e straordinaria ispirazione improvvisativa su tempi e ritmi “nuovi”. Come non rimanere perturbati dal raro talento e dall’avvenenza della giovane, insieme alla tecnica funambolica che connota l’esibizione e la sostanza vera del materiale popolare tzigano a cui ella attinge? Il connubio tra esibizione e repertorio coinvolge Ravel poichè nel suo catalogo la performance solistica si è sempre caricata fino a ora di aspetti virtuosistici e trascendentali, tuttavia sempre monitorati sotto il severo controllo di un’eleganza formale minimalista e colta. Nasce così, in questa indimenticabile serata, per una donna di talento e solo a lei dedicata, l’idea di Tzigane, composizione per violino e pianoforte che, egli scrive, vuole essere un “pezzo virtuosistico nel gusto di una rapsodia ungherese”. Con l’intento di valorizzare al più possibile le capacità tecniche ed espressive di Jelly, la rapsodia è articolata, come da tradizione, in due sezioni: la prima a carattere lento e intimistico, la seconda lanciata verso quelle velocità iperboliche che gli artisti di strada sfoggiano per strabiliare i passanti. Se allo stile improvvisativo e ai motivi fantastici e fortemente caratterizzanti della tradizione tzigana avevano già attinto a piene mani, e con fortuna, autori della musica colta occidentale come Brahms, Liszt, Lalo, Sarasate, Saint-Saëns, in Ravel appare l’intento, fin dalle prime battute della composizione, di operare un rafforzamento del carattere libero ed espressivo, unitamente alla messa in scena di una dimensione onirica, trasfigurata e visionaria, a tratti perfino ironica e grottesca. Questi aspetti saranno oltremodo resi evidenti dalla scelta iniziale, piuttosto inconsueta, di ricorrere al piano-luthéal quale strumento accompagnatore. Derivato dal pianoforte classico, questo strumento consente la possibilità illusoria di ottenere i consueti suoni percussivi del pianoforte, associati ai suoni pizzicati propri della timbrica del clavicembalo o del cymbalum, strumento dal caratteristico timbro nasale.
Agli occhi di Ravel, la figura della giovane violinista diviene la personificazione mitica della Musica, una donna, in grado di svelare le segrete relazioni tra lo strumento e l’artista. I suoni prodotti dal violino, grazie a sapienti movimenti dell’esecutrice, dialogano in rapporto sinestesico con la sonorità visuale delle oscillazioni dell’archetto e di tutto il corpo della giovane, a sua volta indotto dalla musica a muoversi empaticamente, flettendosi e inarcandosi nello spazio aereo e sonoro circostostante. L’operazione di Ravel, partendo dall’utilizzo di materiale popolare molto ammiccante e alla moda, d’intrattenimento e di largo consumo, assume ancora una volta una matrice fortemente intellettuale, nell’intento di indagare le possibilità timbriche strumentali e le ripercussioni emotive e fisiche sia della violinista, sia dell’ascoltatore-osservatore presente alla performance. Ed ecco che la partitura di Tzigane diviene l’archetipo novecentesco dell’aspetto gestuale violinistico, cui seguiranno, per tutto il secolo, diverse sperimentazioni in tal senso. Una tra tutte, la Sequenza VIII per violino solo di Luciano di Berio, composta nel 1977 e definita dall’autore stesso come “sequenza di gesti strumentali”. Ma c’è di più. I fondamenti della tecnica virtuosistica paganiniana, serbatoio imprescindibile “per non dimenticare nessuna diavoleria”, saranno analizzati in dettaglio da Ravel, nella sua stravagante residenza di Montfort-l’Amaury, grazie alla strenua collaborazione con la violinista Hélène Jourdan-Morhange, ancora una volta una donna, assoldata nell’impresa di riproporre al compositore il campionario di tutti i passaggi più ardui dei Ventiquattro Capricci. Ulteriori rimandi musicali, anche in forma di vere e proprie citazioni, giungeranno infine dalle Rapsodie ungheresi di Liszt.
L’apertura della piece, di grande impatto emotivo e in tempo Lento quasi cadenza, si presenta come la mimesi dell’improvvisazione, tra sonorità estreme e silenzi indefiniti. Il violino solo attacca con veemenza, sulla quarta corda del Sol, gruppi di note lasciate risuonare a lungo, precedute e inframezzate da note brevi e leggere, in una successione cromatica di imprevedibili gesti ritmici e di necessarie pause riflessive. L’irruenza del tema iniziale si apre verso un secondo tema, in Tempo rubato, più meditativo e malinconico. Per tutta una prima sezione, il materiale sonoro si distende nella successione combinatoria degli elementi proprosti e sulla ripetizione delle figure, tecnica propria della rapsodia da concerto, sperimentando ogni possibilità estrema dello strumento. Sul tremolo del violino, alla battuta cinquantanove, finalmente entra in gioco il pianoforte, in un tempo Quasi cadenza che sfocia nel prologo di un iniziale accelerando a due. Da questo primo incontro dei personaggi insieme sulla scena, congiunti nel turbinìo di un’onda sonora, libera di vagare nello spazio, inizia l’esposizione di un tema del violino, quasi un canto popolare lontano, che si apre in una serie di variazioni libere e senza sviluppo. Le sequenze successive ripropongono, con grande fantasia e imprevedibilità nel rapporto tra violino e pianoforte, una spasmodica ricerca di effetti di colore, di variazioni di tocco e di timbriche molto differenti tra loro, sfoggiando un repertorio fatto di suoni flautati, pizzicati, mordenti, gruppetti, rapidissime scale cromatiche, trilli nei registri acuti, arpeggi e bicordi accentuati. A partire dal Meno vivo-Grandioso, la composizione assume le caratteristiche proprie di una danza sabbatica tra i due protagonisti, a tratti incalzante e vorticosa, a tratti più seduttiva e lenta, quasi volendo trattenere, il più possibile e con acuta maestria, la spasmodica corsa a briglie sciolte che si spinge nelle battute conclusive verso un accelerando parossistico finale. Nel gioco e nel rispetto dei ruoli, la violinista, una donna, non è affatto sopraffatta e fugge via, alla stessa velocità di chi la rincorre e non può farne a meno.