Seconda puntata
– Non era questa la risposta che mi aspettavo. Quel lavoro è mio, non di quella squinzia di Palmira.
Stavo gridando nel telefono che non è bello e nemmeno educato e i pantaloni sembravano perplessi, lì, appoggiati allo stipite della porta.
– Va bene, ho capito, non ho voglia di discutere.
Sbattei la cornetta e mi alzai dalla scrivania. Guardando fuori dalla finestra mi accorsi che era una bella mattinata di sole, ma la cosa non mi rallegrò, anzi, mi venne il magone perché tutti sembravano allegri e io ero triste. Poi sentii qualcosa di morbido contro al fianco, mi voltai e vidi i calzoni che, non mi si chieda come, mi guardavano da sotto in su.
– No, è solo che non me ne va bene una, ecco – strano che non mi sentissi stupida a parlare con un capo di vestiario disabitato. – Quell’incapace del mio capo mi ha tolto un lavoro al quale tenevo.
Mi ritrovai a tirare su col naso, ma non volevo piangere, ai pantaloni non piace molto.
– Oh, bè, sapete che faccio? – mi asciugai gli occhi – Vado al supermercato, preparo un pranzo con i fiocchi e chi se ne frega. Preferenze?
Cucinare mi rilassa, certe volte penso che dovrei mollare l’agenzia e mettere su un catering.
I pantaloni non mangiarono, ma sembravano molto contenti e risero quando gli raccontai la barzelletta del passerotto e il biker, non mi si chieda come, ma risero.
Nel pomeriggio diventarono nervosi all’improvviso; dallo studio li potevo vedere mentre camminavano avanti e indietro, senza pace. Cominciai a preoccuparmi.
La mia preoccupazione aumentò quando, dopo cena, li vidi che si preparavano per uscire.
– Ma dove andate? E da soli poi.
Si fermarono a metà del corridoio con aria colpevole.
– Se aspettate cinque minuti mi cambio e vengo anch’io.
Si stropicciarono le tasche, chiaro che non mi volevano con loro.
– Prendete almeno l’ombrello! – gridai per le scale – Minaccia pioggia!
Quando tornarono finsi di dormire e mi ripromisi di non fare scenate. Probabilmente avevano solo bisogno di spazio.