di M. P. Ercolini
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Dove sono finite le donne?
Meglio dire “i diritti della persona”, “ il lavoro dell’umanità, gente comune”, e “popolazioni primitive”, visto che anche l’uomo di Cro-Magnon aveva una compagna.
Parlando di popoli ci ostiniamo a usare il maschile.
“Il popolo romano dà un’idea più corretta dell’espressione “I Romani”
In tante occasioni ci si dimentica delle donne: “i ragazzi, “i fratelli, “i vecchi. Meglio dire: “adolescenti”, “giovani,” “sorelle e fratelli”, “persone anziane”.
A scuola, per esempio, dove si parla quasi sempre di alunni.
Se entro in aula dicendo buongiorno ragazzi, va tutto bene, anche se sono presenti 20 alunne ed un solo alunno; ma se dico buongiorno ragazze, quel solo alunno protesta e le sue compagne lo sostengono, perché, a loro dire, lo escludo e lo offendo!
Le forme dissimmetriche sono molte.
In una coppia si usa il cognome dell’uomo anche per la donna.
“I coniugi Rossi oppure “Bisogna convocare i signori Bianchi…
Dietro questo fatto si nasconde infatti l’idea di una sottomissione della donna all’uomo e il suo riconoscimento in quanto “moglie di un uomo.
E ancora: diciamo la Gelmini e non il Berlusconi, la Bindi e non il D’Alema.
Nei pochi casi di donne al potere ci sentiamo in dovere di specificarne il genere. Non sarebbe meglio, invece, abituarsi all’idea che cresca il numero di donne al parlamento?
La lingua, del resto, è viva e si evolve con l’uso.
Alcuni cambiamenti possono essere fatti senza infrangere le regole grammaticali in uso, semplicemente scegliendo espressioni più corrette.
Evitare l’uso del maschile come genere ‘non marcato’ è semplice:
I diritti dell’uomo (della persona)
A misura d’uomo (umana)
L’uomo primitivo (i popoli primitivi)
Usare i titoli professionali al femminile se il referente è femminile lo è altrettanto: in alcuni casi è sufficiente modificare l’articolo (termini in e o in a, participi presenti, composti con capo…), in altri bisogna far variare anche il termine, adeguandolo ad una sua versione femminile.
Nel caso di participi presenti basta cambiare l’articolo, perché il nome resta comunque invariato (la presidente, la comandante, le insegnanti, le studenti…).
Cambiare l’articolo in altri casi è sbagliato e nasconde un pregiudizio che va rimosso.
La grammatica italiana è molto chiara: i nomi in –o formano il femminile in –a. Ragazzo/ragazza, maestro/maestra. Direste mai il maestra? O il casalinga? O l’uomo infermiera? E quindi: ministra, avvocata, sindaca, deputata.
Non siamo abituati a queste parole al femminile perché le donne non hanno mai ricoperto quelle posizioni. Ora che le ministre, le avvocate e le architette ci sono, usiamo le parole giuste, perché se ci esprimiamo con eccezioni linguistiche, del tipo un nome maschile con un articolo femminile) ribadiamo l’eccezionalità del significato: finché useremo espressioni anomale per indicare presenza di donne in posizioni di prestigio, il fatto sarà sempre sentito come un’anomalia.
Per rendere un mestiere al femminile si aggiunge a volte il suffisso essa, ma in alcuni casi è inutile e grammaticalmente sbagliato: deputata, ad esempio, non è altro che il participio passato di deputare; anche magistrata, avvocata, prefetta, derivano da participi passati latini.
Il suffisso essa ridicolizza le professioni ed è meglio, quando possibile, farne a meno; è quindi preferibile far seguire all’articolo femminile le seguenti parole: ministra, sindaca, pretora, medica, architetta, chirurga, ingegnera, atleta, profeta.
Ci sono anche degli errori che potremmo iniziare a commettere volutamente.
Perché non accordare aggettivi e participi con i nomi che sono in maggioranza?
“Maria, Paolo e Francesca sono stati buonissime, “Lorena, Francesco, Gisella e Sandra sono arrivate stamattina”.
E in caso di parità numerica? Meglio accordare con l’ultimo sostantivo della serie: “Paola e Luigi sono usciti presto e “Luigi e Paola sono uscite presto.
Cambiare le parole significa anche cambiare lentamente i pensieri ad esse legati.
I vocabolari contengono molti termini arcaici e molti termini nuovi., basti pensare ai neologismi nati con la diffusione di telefonini e computer (digitare, messaggiare, scannerizzare…).
Molte parole sono state dimenticate spontaneamente, mentre altre sono state abbandonate volutamente, perché ritenute offensive alla sensibilità collettiva: negro è stato sostituito da nero, serva da colf, giudeo da ebreo, spazzino da operatore ecologico, handicappato da diversamente abile.
Se è politicamente scorretto dimostrare attraverso le parole un atteggiamento razzista, perché non dovrebbe esserlo manifestare un pensiero sessista?
Una parola nuova sembra sempre brutta, perché l’orecchio non è abituato a sentirla, ma con il tempo e l’uso, il disagio “estetico si annulla e la correttezza “etica rimane.
Non è sufficiente affrontare la questione per cambiare linguaggio perché è difficile disabituarsi alla lingua che ci è più familiare.
Perchè si raccolgano frutti significativi, bisogna modificare i comportamenti nel profondo e lavorare molto sulle nuove generazioni. E’ chiaro che per farlo diventa necessario formare chi insegna, a partire dalla scuola primaria, anzi dalla materna.
Mia figlia in prima elementare aveva un atteggiamento molto critico sul nostro femminismo di famiglia e durante una discussione in cui avremmo voluto coinvolgerla ha messo le mani avanti dichiarando: Io non sono femminista, io sono tutteduista. In quinta, invece, ha dichiarato: “Ho capito che femminista e tutteduista sono la stessa cosa. Aveva già visto abbastanza del mondo.
Mi rendo conto che in questa fase, la condizione femminile e la sua immagine hanno altre priorità: le violenze, l’uso strumentale del corpo…
Ma l’impegno in questi settori non esclude la battaglia linguistica.
Bisogna lavorare contemporaneamente su più fronti, dando grande spazio all’educazione, e soprattutto alla formazione di formatori e formatrici.
La scuola insegna a relazionarsi e a pensare…