Alla costante ricerca di una realizzazione sociale. Utile agli altri..
Sui cinquanta, ma ancora quello che sicuramente diresti una bella donna, di piacevole aspetto. Giovanile, sportiva, non pensi alla sua eta’ quando le parli, ma sei trascinata dalla sua voglia e forza di ricominciare sempre.
Barbara Tagliolini, sembra volersi scrollare dalle spalle il nome che si porta indosso.
Nata a nata a Roma ne 1961, e’ sposata da più di 30 anni con la stessa persona, un matrimonio passionale con qualche turbolenza che lei stessa definisce intensa.
Figli Barbara?
Ho due figli bellissimi, come dicono tutte le madri del mondo, che si stanno affacciando alla vita con la loro professionalità. I miei studi hanno riguardato sostanzialmente il mondo della storia dell’arte e recentemente l’antropologia; mi considero una ricercatrice curiosa.
Cosa hai fatto nella tua vita?
Quello che hanno fatto tutte le madri, ho cresciuto dei figli, ma in più ho cercato una mia realizzazione nel sociale. Ho sempre pensato che il mio lavoro dovesse essere utile, non solo a me, ma anche agli altri. Per questo ho scelto di lavorare nel campo della comunicazione e della valorizzazione culturale, in relazione al territorio e al suo patrimonio, cambiando spesso veste: giornalista, guida turistica, docente universitaria e formatrice..
Ci parli del tuo ‘master’ a Parigi ?
Insegnavo didattica museale per il turismo all’Università di Tor Vergata a Roma, quindi la relazione tra i turisti e patrimonio nella sua valenza museale o territoriale. Ad un certo momento mi sono resa conto che ciò che conoscevo non era più sufficiente per poter andare in profondità nella questione e mi dovevo impadronire degli strumenti dell’antropologia, per cui sono andata a studiare Antropologia Sociale all’École des Hautes Études a Parigi. Una scuola prestigiosa, con una grande tradizione scientifica, che mi ha permesso di aprirmi nuove visuali per comprendere le relazioni che si intessono sul filo del tempo come dice Marc Augé. Come terreno di ricerca ho scelto San Pedro di Atacama, la terza località turistica del Cile, un piccolo villaggio indigeno nel nord del Cile, nel pieno deserto di Atacama. La prima volta che vi sono andata è stato nel 2007 su invito della CONADI, la Corporación Nacional de Desarollo Indígena, per un work shop di formazione delle guide indigene. In seguito vi sono ritornata varie volte, collaborando con una rete di turismo comunitario e solidale e per svolgere le mie inchieste. Quello che mi ha incuriosito è stato la relazione, più o meno conflittuale tra i tre gruppi che lo compongono: gli indigeni che rivendicano il loro ruolo identitario e la gestione delle risorse, gli afuerinos, ossia gli stranieri che vi si sono stabiliti per lavoro e di fatto sono i beneficiari diretti dello sviluppo e i turisti stessi come elemento chiave della relazione. Interessante è vedere l’adozione di modelli di neo-indigenismo come strategia identitaria e turistica. Il tema dell’identità è un tema molto attuale ovunque e riguarda strettamente il turismo che mette in campo sempre la relazione tra abitanti e forestieri.
Che cos’è per te il turismo culturale?
Non esiste, o meglio è solo una categoria di turismo creato dal marketing per vendere un prodotto. Sono molto critica a questo riguardo. In Italia si parla molto di cultura, ma se ne fa molto poca e inoltre, bisognerebbe riflettere sul concetto stesso di cultura che cambia a seconda del contesto ed è comunque legata al luogo che la produce. Negli ultimi anni si è assistito alla frammentazione della parola turismo in tante diciture; turismo enogastronomico, congressuale, crocieristico, religioso, in realtà si tratta solo dello stesso fenomeno la pratica del viaggiare che assume aspetti diversi, a seconda della sua procedura. Per riprendere Jean-Didier Urbain, un antropologo francese, noi ci vergogniamo di essere turisti e ci pensiamo quindi viaggiatori. Il turismo culturale è una forma di snobismo nei confronti degli altri. In realtà adesso sono le masse a viaggiare, basta vedere il numero esponenziale del turismo crocieristico. Un fenomeno preoccupante per i suoi impatti sul territorio, ma estremamente interessante dal punto di vista sociale. Il turismo si evolve, è dinamico è lo specchio attuale della società con le sue incertezze e contraddizioni, non lo si può vedere solo come un’evoluzione del Grand Tour. Il turismo adesso è portato a confrontarsi con i grandi problemi del suo tempo, l’immigrazione, la multiculturalità e la mondializzazione che si intersecano e si compenetrano a vicenda.
Pensi che in Italia ci sia un turismo per diversamente abili? Cosa manca?
Certamente e si tratta anche di molte persone che viaggiano in termini numerici, ma sono un pubblico “trasparente” di cui nessuno tiene conto quando si tratta di progettare e sviluppare le politiche locali e nazionali. Tutto ciò che a che fare con la diversità, tranne pochi esempi, e cito come esempi di buone pratiche il Museo Omero di Ancona e l’Istituto Cavazza di Bologna per l’accoglienza ai ciechi, è lasciata in mano ai volontari, gente di buona volontà che purtroppo non ha una preparazione idonea a ricoprire dei ruoli così delicati. A questo riguardo manca una formazione, come esiste per gli insegnanti di sostegno, rivolta al mondo del turismo. Con i tagli all’Università tanti progetti sono rimasti sulla carta e ciò è un peccato, oltre che una vergogna. Il campo del turismo per persone con bisogni speciali comprende persone con esigenze molto diverse tra loro e di ciò bisogna tener conto nella progettazione di itinerari specifici. Nella mia esperienza professionale mi sono trovata ad accompagnare delle persone a visitare la città di Roma e non è facile farlo con una sedia a rotelle e una bombola per l’ossigeno per i sampietrini, la folla di persone, le strade accidentate ed altro. Ovviamente si tratta di un caso “speciale, ma esistono viaggiatori con altre problematiche, sordità, cecità, difficoltà motoria e spesso ci si dimentica che tutte queste difficoltà colpiscono, non solo i diversamente abili, ma più generalmente gli anziani. Il turismo per diversamente abili costituisce non solo un valido strumento conoscitivo ed esperenziale, ma anche un ausilio riabilitativo terapeutico.
Perché senti sempre la voglia di ricominciare?
Forse per un senso di sfida nei miei confronti, quando ormai so fare una cosa, o la conosco già in profondità mi annoio ed ho voglia di sperimentare nuove situazioni o esplorare nuovi orizzonti di ricerca. Il mio dottorato di ricerca a Parigi è nato cosi
E adesso cosa vorresti fare?
Se potessi tutto! Ho cosi tanti sogni nel cassetto… i miei progetti per l’immediato sono trovarmi un lavoro a Milano, proseguire con la tesi di dottorato, ritornare in Cile e godermi la famiglia e gli amici..