di Sandra Berriolo
Intervista a Marilù Oliva: una donna moderna ma che conserva la tradizione a tavola
Marilù Oliva vive a Bologna dove insegna lettere alle superiori e nel tempo libero legge gialli e saggi di criminologia. Ha scritto diversi saggi e racconti e un romanzo che uscirà nell’autunno 2009 per WalkieTalkie di Perdisapop, collana diretta da Luigi Bernardi. Nel 1997 ha vinto il Premio Italialibro, nella sezione narrativa, col suo romanzo breve ” La paura delle streghe.”
Si occupa di ricerca di storia contemporanea e scrive per alcune riviste letterarie e non, tra cui Thriller Magazine (www.thrillarmagazine.it) dove cura due rubriche -Shining e Ferri del mestiere- e Bibliomanie (www.bibliomanie.it). E’ appassionata anche di salsa cubana e di storia romana.
In che modo ti occupi di storia contemporanea?
Oltre a collaborare come ricercatrice per un Istituto storico, l’Isrebo, ho pubblicato qualche saggio breve e, nel 2008, Quel che resta di un giorno all’interno del libro I neri e i rossi, a cura di Mirco Dondi. Si tratta di un libro sul terrorismo e la comunicazione, ovvero come i media hanno trasmesso l’evento, le conseguenze, quanto hanno influito nei processi di costruzione dell’opinione pubblica. È stato quindi un viaggio nella notizia, uno studio su come si formano le notizie, come si diffondono e perché attecchiscono anche quando non completamente fondate. Il mio saggio tratta della strage di Bologna, dell’iter processuale lungo, faticoso e macchiato da continui depistaggi orditi dai servizi segreti, di una verità processuale che, nonostante sia basata su prove e testimonianze, purtroppo ancora ad oggi è contestata. In tutto ciò i mezzi di comunicazione di massa hanno avuto un ruolo fondamentale anche, diciamo, semplificando, in negativo.
Come sai mi occupo di alimentazione, quindi mi scatta subito la curiosità: nel tuo lavoro di insegnante inserisci anche l’elemento cibo?
Io insegno lettere, vale a dire italiano, geografia e storia. L’elemento cibo è presente in tutte e tre le materie. Tra l’altro i ragazzi lo ricordano bene: per quanto riguarda storia, ad esempio, memorizzano sempre con facilità i prodotti importati in Europa dopo la scoperta dell’America, le crisi collegate alle carestie, e gradiscono gli approfondimenti sulle abitudini alimentari.
Nell’autunno 2009 uscirà per Perdisapop il tuo romanzo noir Repetita. Vi è, al suo interno, un discorso importante sul cibo…
Il protagonista, Lorenzo Cerè, è un omicida divenuto tale anche in conseguenza di un’infanzia segnata dal sopruso e da violenze fisiche e psicologiche. Il cibo è il suo rifugio, la sua carezza d’affetto. Lui è una sorta di eremita, è un adulto solo, senza famiglia né amici, dalla qual cosa si può capire quando il cibo sia considerato elemento-amico nella sua vita. Ciò non significa che lui sia sovrappeso: oltre al fatto che corre e pratica sport, ricerca nell’alimento la qualità, non la quantità. É un “raffinato del cibo, direi. Lo stesso rapporto ossessivo lo ha con il sesso. Ma mentre il sesso è finalizzato a colmare un’esigenza fisiologica, il nutrimento punta ad appagare (punta, ma di fatto non ci riesce!) una sua necessità affettiva.
Sempre restando nell’ambito del noir, tu fai interviste e recensioni per la rivista Thriller Magazine. Quanto conta l’elemento cibo in questo genere di narrativa?
L’elemento cibo è presente, è una costante che ritrovo non sempre, ma spesso, anche nei romanzi thriller. Credo che il motivo di fondo sia questo: ogni forma di narrativa è una proiezione in astratto della vita e, quindi, trascina nella storia tutti gli elementi fondanti dell’esistenza.
Hai scritto una monografia lunga su Gabriel Garcia Marquez che uscirà per Liguori. In che rapporto sei con l’America Latina e le sue tradizioni?
Il mio amore per l’America Latina è profondo e radicato. Non classificabile, direi. Amo quelle terre, la mezcla di colori e di popolazioni, quella cultura che conserva il realismo magico nella letteratura di secondo Novecento e il ritmo ancestrale nella musica. Sono una salsera per pura passione, ascolto salsa cubana, portoricana e venezuelana quasi quotidianamente (per un ricarico energetico!), la ballo e la canto. Apprezzo il cibo dell’America latina, ho un ricettario di Jorge Amado cui ricorro spesso, “La cucina di Bahia. Ma propongo anche cucina cubana e messicana, cucine forti, arroz (riso), pollo, pescado, ron, frutos de la tierra, e, soprattutto, peperoncino!
Bene, siamo arrivati al dunque! Continuiamo a parlare di te: usi il cibo per sedurre?
Lo uso per coccolare, per “prendermi cura” delle persone che amo. Mangiare con famiglia e amici è un momento importantissimo di complicità, intimità, divertimento e condivisione.
Mangi di più o più volentieri quando scrivi o quando sei annoiata?
Scrivo soprattutto in casa e quando sono in casa mangio decisamente di più. Raramente sono annoiata. Perché, anche quando non avrei nulla da fare, mi metto a divagare col pensiero.
Quando lavori ai tuoi libri mangi, mangiucchi, sgranocchi?
Poco. Semmai, all’ora dell’aperitivo serale bevo, qualcosa di frizzante e fresco.
Cucini di più quando sei rilassata o al contrario?
Non faccio distinzione. Sono abituata a cucinare da moltissimo tempo e ad ogni pasto. Diciamo che quando sono rilassata mi abbandono di più alla fantasia, sperimento, mi butto in opere più impegnative e lunghe. Cucinare non mi stanca, anzi, mi distende se sono stanca e mi gratifica se sono riposata. Mi stressa tantissimo sistemare dopo, ma ho un marito delizioso che mi aiuta anche in casa.
Che piatto vorresti essere?
Un risotto allo zafferano. Impegnativo, preciso nella cottura (ma bisogna fare attenzione, se no addio!), non pesante, ha pretese d’eleganza ma in fondo è un piatto semplice, multietnico, e il suo giallo è solo un segno di ottimismo. Poi non si può dare delle arie: senza il soffritto di cipolla perderebbe il 30% del suo bello!
Qual è il cibo del ricordo per te?
Tanti. Arrivo da una famiglia di grandi cuochi per passione. Mio padre era napoletano e cucinava degli spaghetti con le vongole che inondavano di profumo di mare e prezzemolo tutta la scala del palazzo. Mia madre era ferrarese e ci riproponeva i sapori di quelle terre, recuperando i prodotti contadini. Raccoglieva lei i funghi (e ci è andata sempre bene, dico ora col senno di poi!), i radicchi, le more selvatiche. Prima di sposarmi ho vissuto molti anni con mia sorella e lei, ad oggi, non cucina se non prelibatezze. Anche un piatto di carbonara, per lei, è un’opera d’arte. Più che un cibo-ricordo, quello che mi è rimasto nel cuore è la saga degli odori della domenica: il fumo del brodo o del pomodoro che ribolliva nel ragù, l’odore di pasta fresca dei tortellini appena arrotolati sul loro ripieno, il profumino speziato dell’arrosto al forno.
Mangeresti mai insetti, serpenti e robe così?
Non ho particolari chiusure verso il cibo. Però se andassi in un paese esotico, più che agli insetti, sarei interessata alle verdure o alla frutta. Sono un’onnivora con leggere deviazioni vegetariane.
Quanto il cibo è gioia e quanto è dovere?
Il cibo è grande gioia e grandissimo piacere. Non è per niente dovere. É, semmai, senso di colpa, dopo. Perché per noi donne (e sottolineo il femminile) è facile –quando non inevitabile– cascare nella trappola del condizionamento mediatico.
Bologna è sempre la capitale della goduria gastronomica?
Bologna è una delle città in cui si mangia meglio. Posso lanciare però una piccola critica? La qualità del cibo è andata scadendo. Dove prima si mangiava bene, ora si mangia benino. Ti faccio un esempio: nei supermercati frutta e verdura spesso sono insapori, la carne è dura, i gamberi non possiedono la dolcezza di fondo che li dovrebbe contraddistinguere. La mortadella, che è uno dei nostri prodotti tipici, si vende soprattutto confezionata e non ha più il buon sapore di una volta. Non ovunque, è vero. Credo però che sia una tendenza generalizzata e lo affermo con grande rammarico.
A proposito di rammarico: c’è un piatto che cucini per cacciare il dispiacere?
Sì, dai che ci divertiamo! Un piatto che nasce come antipasto perché l’idea di fondo è che, quando uno è triste, ha lo stomaco chiuso. Quindi bisogna invogliarlo con l’inganno: facendogli venire il desiderio di cibo un po’ alla volta. Prima regola: deve essere presente del vino, possibilmente fresco. O, in alternativa, un drink ma rigorosamente alcolico, non troppo dolce e colorato. Seconda regola: preparare tanti antipastini freddi e caldi a piacere, non patatine e schifezze varie confezionate ma, che so, verdurine sott’olio o anche fresche in pinzimonio, pezzetti di focaccia o pizza, tronchetti di salumi e formaggio, palline di formaggio morbido (robiola, ad esempio) rotolate nei semi di sesamo che fanno molto effetto, pesce finto (è semplicissimo: patate lessate, passate e mescolate a tonno sott’olio e, eventualmente, capperi, sistemate a forma di pesce, coperte infine di maionese e magari decorate). Insomma, tanti piccoli assaggi alternati da tanti piccoli sorseggi. Magari anche solo il tempo dell’antipasto ma, ti assicuro, la tristezza scompare per una mezz’oretta (il che è già qualcosa!).