di Caterina Della Torre
Capo Verde, un paese dove la famiglia si regge sulle spalle delle donne.
Sara Callegari, trevigiana trentenne, laureata in scienze internazionali diplomatiche a Gorizia e con un master in genere e sviluppo in Gran Bretagna. Single, senza figli.
A Capo Verde dove abita adesso temporaneamente per lavoro, una presentazione del genere dovrebbe essere riformulata perchè dopo il nome, le avrebbero chiesto subito se ha figli. Qualora avesse risposto negativamente, le avrebbero chiesto l’età, commentando poi risposta con un “non ti preoccupare, presto arriveranno. Solo alla fine, in alcuni casi,le avrebbero chiesto se era sposata, ma non necessariamente.
Da quando sei andata a Capo Verde e per quale motivo?
Vivo e lavoro a Capo Verde da quattro mesi. Mi occupo di monitoraggio e valutazione per le Nazioni Unite.
Ci parli di questo paese, lontano ma vicino (solo tre ore di fuso orario)?
Capo Verde è un luogo affascinate, soprattutto per chi si occupa di sviluppo. In Italia, la sua immagine è ancora legata a doppio filo a Cesaria Evora, o al turismo charter che da qualche anno ha “colonizzato” le isole di Sal e Boavista, ma c’e’ molto di più da scoprire. Capo Verde è un arcipelago di dieci isole e mezzo milione di abitanti (circa la metà della sola Napoli). Seppur geograficamente vicini all’Africa, i capoverdiani si sentono tutto meno che “semplici” africani: a volte più europei, altre più americani, decisamente, comunque, non etichettabili con classificazioni affrettate. Nonostante siano un popolo creato dal nulla e quindi estremamente composito dal punto di vista etnico – prima dell’arrivo dei portoghesi, e delle loro navi cariche di schiavi, le isole erano deserte – posseggono una forte identità ed orgoglio nazionale, che si nutre appunto anche di forti influenze europee e statunitensi. E’ un paese in forte crescita, che ha saputo risollevarsi dall’estrema prostrazione socioeconomica che lo caratterizzava nel momento dell’indipendenza nel 1975, passando dallo stato di paese meno avanzato a quello di paese a reddito medio (unico caso, oltre al Botswana, nella storia) in soli trentatré anni. Tutto questo nella quasi totale assenza di risorse naturali, con un settore agricolo fortemente limitato dalla lunghissima stagione secca (più di nove mesi!) che fa sì che il 90% degli alimenti sia importato, e in una situazione di insularità che complica i collegamenti ed i trasporti. I capoverdiani raccontano che Dio creò accidentalmente Capo Verde sfregandosi le mani dopo aver finito di creare il mondo, lasciando così cadere i resti del suo tocco creatore che andarono a formare le dieci isole dell’arcipelago. Pur essendo nati da un “errore”, hanno una grande stima delle loro capacità, e una gran voglia di dimostrarle.
Capo Verde è una nazione giovane, non solo in senso anagrafico, ma anche demografico: circa il 60% della popolazione ha meno di trent’anni! Si tratta di una forza propulsiva con enorme potenziale, e trovo molto positivo che spesso le mie controparti governative abbiano la mia età (o poco più): si tratta di dare il giusto spazio a chi è il presente e, soprattutto, sarà il futuro di questo Paese. La sfida per il governo è quella di riuscire a garantire a tutti questi giovani un’istruzione adeguata a sostenere l’ambizioso livello di sviluppo che i capoverdiani vorrebbero raggiungere, e un posto di lavoro. Il tasso di disoccupazione giovanile a Capo Verde è simile al corrispettivo italiano del momento, circa il 25%: l’impatto potrebbe essere esplosivo se non si sapranno creare posti di lavoro di qualità nei prossimi anni.
Le donne cosa fanno? Lavorano, fanno figli? E gli uomini?
Capo Verde potrebbe essere descritta come una società matriarcale, perché la famiglia si regge sulle spalle delle donne. Ad esempio, quasi la metà delle famiglie è sostenuta da una donna, nella maggioranza dei casi in modo esclusivo. I padri sono altrove: alcuni emigranti all’estero, molti altri semplicemente abbandonano la famiglia. In questo quadro, le donne si arrabattano: hanno il tasso di disoccupazione più alto, e quello di attività più basso, e affollano il settore informale. Più della metà delle famiglie monoparentali femminili sono povere. I ruoli di genere sono definiti piuttosto nettamente, e si riflettono perfettamente nelle regole di “corteggiamento, molto maschili. Si tratta, quindi, di un matriarcato maschilista, in cui le donne assistono, mantengono le redini, ma raramente sono riconosciute per il loro ruolo.
Dal punto di vista dell’istruzione, Capo Verde è tra i pochi paesi in Africa ad aver garantito l’istruzione basica universale alla sua popolazione, raggiungendo prima del tempo l’Obiettivo del Millennio dedicato a questo ambito. Questo significa che non esistono discriminazioni tra i sessi a livello di istruzione elementare per le nuove generazioni. Anzi, le ragazze in genere terminano tutto il ciclo basico (e spesso vanno oltre), mentre più spesso sono i ragazzi ad abbandonare la scuola inseguendo l’idea di trovarsi un lavoro e diventare cosi economicamente autonomi. Purtroppo però, l’età fertile inizia molto presto per le ragazze, che, se restano incinte, sono costrette da una legge specifica ad abbandonare la scuola fino al completamento della gravidanza (!). Pochissime tornano poi tra i banchi di scuola, compromettendo cosi le loro possibilità future e quelle della loro (nuova) famiglia.
Inoltre, il governo ha recentemente modificato i criteri di calcolo del tasso di disoccupazione, adattandosi agli standard internazionali, applicandoli però in maniera troppo “rigida”. Come conseguenza, oggi tutte le donne che svolgono compiti di cura in famiglia – e immaginate quante siano – vengono automaticamente escluse dal calcolo dei disoccupati perché si ritiene che non siano interessate ad entrare nel mercato del lavoro. In alcuni casi questo è certamente vero, ma questa rigidità pone notevoli problemi, sia dal punto di vista concettuale (lavoro di cura e lavoro retribuito come mutualmente esclusivi, mentre le statistiche e i bisogni strategici di genere dimostrano il contrario), che dal punto di vista programmatico (i dati sul tasso di attività vengono distorti, complicando l’elaborazione di politiche pubbliche veramente efficaci).
Dal punto di vista della rappresentanza politica, Capo Verde ha gli stessi problemi dell’Italia: le donne se la cavano meglio quando si tratta di essere nominate, mentre arrancano vistosamente nella competizione politica elettiva. Infatti, su 72 membri del parlamento, solo 8 sono donne, di cui solo tre elette direttamente.
Qual’è l’isola più all’avanguardia delle 10 di Capoverde?
Uno dei problemi più profondi del paese è lo sviluppo diseguale delle varie municipalità che compongono le varie isole. Più che di distinzione tra isole, quindi, è meglio parlare di municipalità. Se, infatti, a livello globale, la performance di Capo Verde per quanto riguarda le possibilità socio-economiche offerte ai suoi cittadini è buona, esistono profonde differenze interne, in termini, ad esempio, di accesso all’acqua potabile canalizzata, agli ambulatori, alla rete elettrica o ai servizi igienici. Insomma, di servizi basici. C’è una netta distinzione tra ambito urbano e rurale, con quest’ultimo costantemente in ritardo rispetto ai livelli raggiunti dal primo. E’ inoltre interessante notare che l’arrivo del turismo di massa a Sal e Boavista ha portato solo moderati vantaggi alla popolazione: l’accesso ai servizi continua ad essere limitato e concentrato verso i resort, mentre il costo della vita è aumentato in maniera esponenziale.
La presenza di buoni collegamenti, poi, è in genere direttamente legata anche ad un miglioramento dell’accesso ai servizi. L’isola di Brava, ad esempio, è collegata con il resto dell’arcipelago solo tramite una nave, il cui orario è assolutamente imprevedibile: dovrebbe essere una volta a settimana, ma il giorno non è fisso, e molto spesso la partenza viene cancellata o modificata all’ultimo minuto senza preavviso. E l’unica cosa che resta da fare in questi casi è sedersi ed aspettare.
Cosa potremmo fare per le donne capoverdiane?
Innanzitutto riconoscere la multidimensionalità della disparità di genere, cercando di rispondere sia ai bisogni basici delle donne, che a quelli strategici. In altre parole, lavorare per colmare le differenze che esistono in relazione all’accesso ai servizi sanitari, all’istruzione superiore, o al gap salariale, per nominarne alcuni, ma allo stesso tempo lavorare per modificare quelle regole sociali che deresponsabilizzano l’uomo ed impoveriscono la donna. Sono gli uomini stessi – quando prendono coscienza degli stereotipi di genere che li coinvolgono – a dire che si sentono limitati nel loro ruolo di padri e compagni dalle aspettative sociali che vedono l’uomo obbligato ad essere “cacciatore senza sosta, e la donna preda impossibilitata a dire di no. In questo quadro, limitarsi a voler includere il maggior numero possibile di donne nell’economia salariata, come accade frequentemente, manca l’obiettivo: il semplice avere un impiego retribuito, anche fosse in un settore non agricolo, da solo non basta a colmare il gap di genere. A maggior ragione, visto lo stadio di sviluppo in cui Capo Verde si trova, in pieno boom e con molte donne in ascesa, interventi esclusivamente di base minaccerebbero il raggiungimento di un progresso equilibrato e sostenibile sul medio/lungo termine.
Il potere politico presta buona attenzione alle disparità di genere: in alcuni casi mancano le capacità e le competenze per fare meglio, ma la volontà è chiara. E questo permette che esista un ambiente molto favorevole e rende l’obiettivo un po’ meno lontano.
Cosa fanno le Nazioni Unite a Capo Verde?
Le Nazioni Unite a Capo Verde sono il terzo maggiore donatore, ed intervengono in moltissimi settori, dall’ammodernamento della pubblica amministrazione, alla promozione dell’imprenditoria, alla lotta contro il traffico di droga, al rafforzamento delle capacità di analisi statistica, per citarne alcuni. A Capo Verde, le Nazioni Unite stanno sperimentando una nuova modalità di gestione ed esecuzione del sostegno allo sviluppo, in linea con il programma di riforma: in inglese, è il Delivering as One, che in italiano potremmo tradurre in maniera blanda con “lavoro congiunto”. E’ stato lo stesso governo di Capo Verde ad offrirsi volontario perché il progetto venisse sperimentato qui: le varie agenzie delle NU sono tutte raccolte nello stesso edificio, e lavorano insieme senza più distinzioni, sfruttando le competenze specifiche e i vantaggi comparativi di ognuna. Non è facile, come potrete immaginare: dopo più di cinquanta anni di lavoro separato, e ampie duplicazioni, far lavorare all’unisono tanti enti differenti richiede grandi doti di coordinazione, diplomazia e forte volontà politica. Il governo è però soddisfatto dell’esperimento: l’azione è più organica ed efficace, più efficiente, politicamente più chiara e controllabile, trasparente, con livelli di responsabilità più chiari e senza duplicazioni. Questa fase pilota terminerà l’anno prossimo: vedremo allora che cosa ne vorrà fare l’Assemblea Generale. Personalmente credo che, nonostante le difficoltà, il “Delivering as One” debba essere necessariamente l’assetto futuro, in un contesto internazionale sempre più competitivo e con risorse sempre più scarse. La trasformazione delle organizzazioni è però un processo complesso, che incontra molte resistenze: da parte di alcune agenzie, che temono di perdere visibilità, da parte di alcuni governi, che traggono vantaggio dalle duplicazioni, e da parte di alcuni donatori, che temono di veder ridotto il controllo sui loro contributi.