di Caterina Della Torre
Lavorare e operare nelle istituzioni internazionali. Aiutando le donne
Due donne di diversa eta’, due storie simili alla ricerca dell’altro, uno stesso obiettivo: Mariangela e Jessica alla fine si sono trovate e lavorano insieme in una stessa societa’ a Milano e per il mondo. Le abbiamo incontrate e intervistate.
Mariangela Bizzari, trentottenne milanese, magra e snella, a vederla sembrerebbe una ragazzina.
Che studi hai fatto?
Mi sono laureata in Scienze Politiche all’Università Statale di Milano, e dopo qualche anno di lavoro in una società di consulenza, sono andata negli Stati Uniti a fare un master in Relazioni Internazionali.
Le tue prime attivita’ lavorative?
Ho sempre sognato di lavorare in ambito internazionale, occupandomi di politica e di relazioni internazionali. Ero affascinata dall’idea delle Nazioni Unite come entità sovranazionale garante della pace e la sicurezza nel mondo. Appena laureata però mi è capitata un’occasione che non mi sono sentita di rifiutare. Ho iniziato così la mia carriera come consulente per una società che si occupava di organizzazione e gestione e sviluppo risorse umane. Il lavoro mi piaceva, e probabilmente avevo anche una certa propensione, ma non è stato sufficiente perché il sogno venisse abbandonato del tutto. Nei quasi quattro anni che ho trascorso nella consulenza non ho mai smesso di cercare opportunità di lavoro e di formazione sui temi che mi interessavano maggiormente, né ho mai smesso di pensare alle Nazioni Unite come punto di arrivo. Così ho finito per trascorrere il mio tempo libero tra Ginevra e New York a seguire corsi e ad approfondire la mia conoscenza dei diritti umani e delle tematiche di genere. Un giorno poi, ho vinto una borsa di studio per fare un master negli Stati Uniti e mi sono detta ‘o adesso o mai più!’. Nonostante le resistenze di parenti e amici, sono partita, e da quel giorno la mia vita è cambiata.
Dove lavori adesso?
Dopo diversi anni trascorsi a lavorare per il World Food Programme, un’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di assistenza alimentare nelle situazioni di emergenza umanitaria, ora lavoro come consulente free lance per varie organizzazioni internazionali e agenzie delle Nazioni Unite.
E ora ti lanci nel lavoro in proprio. Ci parli della tua società e di come vi state muovendo? Quali sono i vostri referenti istituzionali?
Da poco ho creato una società di consulenza – GenderConsult (http://http://www.genderconsult.org/) – che offre servizi sulle tematiche di genere in senso lato, anche se con un focus spiccato sui temi degli abusi e delle violazioni dei diritti fondamentali. GenderConsult si propone come riferimento professionale per ascoltare, raccogliere e interpretare le esigenze e le difficoltà di donne e uomini in situazioni di emergenza e tradurle in proposte di progetto perché le organizzazioni che operano nel settore possano intervenire in modo efficace e sicuro, mitigando le difficoltà e costruendo sulle opportunità e sul capitale umano delle persone.
Progetti per il futuro?
Un corso di counseling per acquisire una ‘professionalità umana’ che mi aiuti a fare il mio lavoro in modo professionale, pur mantenendo un forte senso di umanità e una grande capacità di ascolto. Per GenderConsult invece, l’idea è che si arricchisca della professionalità e della competenza di figure nuove, giovani e motivate, ma anche di esperti nel settore con i quali sviluppare nuove idee di progetto e nuove capacità di intervento. Stiamo inoltre esplorando opportunità nel mercato italiano, attraverso la collaborazione con associazioni ed enti che si occupano di tematiche di genere, ma non solo.
Ci racconti l’esperienza che ti ha segnato di più?
Facendo questo lavoro, sono tante le esperienze che hanno segnato in modo profondo e indelebile la mia vita. Non c’è una missione che non porti con sé insegnamenti importanti e grandi esperienze. L’ultima in ordine cronologico è stato l’incontro con una donna in Colombia durante un gruppo di lavoro. Al termine della sessione mi ha aspettato in lacrime per raccontarmi gli ultimi mesi di una vita segnata dalla violenza e dai soprusi. Mi ha parlato dei suoi figli e della forza che le danno per continuare a lottare, giorno dopo giorno. Non mi ha chiesto nulla, ma io mi sono sentita investita di una responsabilità enorme. In quella situazione ho capito di dover fare di più, e di doverlo fare meglio per lei e per tutte le altre donne che incontro, ma anche per me stessa e per gli obiettivi che mi sono proposta.
Nella storia di Mariangela e della GenderConsult, ecco entrare Jessica Colombo, ventiquattrenne milanese ricca di entusiasmo.
Che studi hai fatto?
All’età di 17 anni ho vinto una borsa di studio per uno scambio interculturale e sono partita per un anno per la Repubblica Dominicana. Quell’esperienza ha influenzato moltissimo quello che ho fatto in seguito. Lì si è formato il mio carattere indipendente, la mia autonomia, e la mia voglia di impegnarmi con e per le persone. Lì si è sviluppata la mia passione per le culture diverse dalla mia, e la voglia di approfondirne sempre di più la conoscenza. Tornata in Italia, ho frequentato la triennale in Comunicazione Interculturale all’Università degli Studi di Milano-Bicocca, con la chiara idea di diventare un’antropologa. Poi durante il cammino universitario ho capito che non avrei voluto passare la mia vita a fare ricerca pura, ma che invece avrei voluto applicare gli strumenti dell’antropologia alla realtà, mettendoli a disposizione di altre persone per migliorare condizioni di vita che ho sempre ritenuto inaccettabili. Mi sono approcciata allora al mondo dello sviluppo e della cooperazione internazionale, cercando di farlo in maniera critica seguendo la mia formazione antropologica di rispetto delle altre culture, con curiosità e voglia di ascoltare. Per conoscere questo mondo professionale ho iniziato a fare corsi brevi di specializzazione che mi hanno permesso di toccare con mano le esperienze di persone che nello sviluppo ci avevano già lavorato. Poi sono partita per un mese per un campo di lavoro in Togo, dove ho insegnato per un mese l’inglese a dei ragazzi di una scuola media sperduta nella campagna togolese, in quello che tutti noi definiremmo il nulla (ma che nulla non è). Lì ho capito perché volevo lavorare in questo campo e come l’avrei voluto fare. Lo spirito prettamente caritevole di certe organizzazioni non mi piace, non lo trovo utile. Bisogna lavorare insieme in modo strutturato e sistematico se si vogliono raggiungere dei risultati durevoli. Sentivo comunque di non essere pronta, né tantomeno preparata ad affrontare questo tipo di lavoro. Allora ho deciso di iscrivermi a un master all’estero. Perché all’estero e non in Italia? A parte il fatto che credo che ogni studente universitario dovrebbe fare un’esperienza all’estero perché ti costruisce come persona, sia caratterialmente sia professionalmente, ho scelto l’estero perché ritenevo (e ritengo tuttora dopo averlo fatto) che fosse un’esperienza davvero professionalizzante che mi avrebbe potuto dare strumenti pratici da usare nel lavoro, invece di tante nozioni imparate senza vederne mai l’applicazione reale. E così è stato: dall’inizio, non senza difficoltà, mi sono trovata catapultata nel mondo del “fare, del “produrre. Non ero abituata, sono stata spiazzata, ho quasi mollato tutto, fino a che ho capito che avrei dovuto stringere i denti, perché mi sarebbe servito. Sono andata in Ruanda per tre mesi, dove ho condotto la mia prima ricerca. È stata dura, ma ancora una volta è stata un’esperienza importantissima: ho capito che non sarei mai riuscita a trasferirmi a vivere in Africa e che avrei preferito lavorare di supporto nella sede di un’organizzazione in Europa, meglio se in Italia, per lasciare l’operatività alle persone del posto, perché crescessero davvero insieme al progetto. Nonostante l’enorme fatica per portarlo a termine – è stata una dura battaglia anche con me stessa – devo riconoscere che il master mi ha insegnato tanto, e che se oggi posso affrontare il mio lavoro con metodo lo devo a questa esperienza formativa.
Esperienze lavorative?
Ho fatto un po’ di tutto, da quando ho potuto lavorare. Ho sempre adorato la mia, seppur piccola, indipendenza economica! E non sono mai riuscita a stare senza un lavoro. Cosa ho fatto? La baby-sitter, la cameriera, l’hostess, l’addetta al banco finanziamenti in una grande catena di elettrodomestici, la traduttrice in Guardia di Finanza (grazie allo spagnolo imparato in Repubblica Dominicana!), la segretaria in uno studio medico, la fundraiser/attivista per i diritti umani, la segretaria/tutor d’aula in un istituto per gli studi di politica internazionale. Quello a cui sono più legata? L’ultimo dell’elenco, perché è lì che ho trovato l’opportunità di fare il lavoro che faccio adesso, quello per cui ho studiato e mi sono impegnata tanto!
E ora che fai?
Da nove mesi ormai collaboro con Mariangela Bizzarri, una consulente senior per varie agenzie delle Nazioni Unite e organizzazioni internazionali sui temi di gender, gender-based violence e protection in contesti umanitari. Lavoriamo principalmente con le donne e per le donne sfollate e rifugiate, quelle che troppo spesso non hanno voce per far valere i propri diritti e vivere una vita libera da ogni tipo di violenza. È un lavoro stimolante, motivante, sai che quello che fai, ogni parola o virgola che scrivi verrà beneficiato da chi ne ha più bisogno. Servirà per dare a queste donne, ma anche agli uomini, la possibilità di ricominciare e di andare avanti con le proprie forze per costruirsi la vita che desiderano. È forse un po’ ambizioso, me ne rendo conto, ma credo anche che il nostro sia un piccolo contributo che, sommato a quello di altre persone e in primis a quello delle persone che beneficiano del nostro lavoro, possa davvero fare la differenza.
Cosa ti piacerebbe fare? E come pensi di raggiungerlo?
Mi piacerebbe continuare a fare quello che faccio! Mi piacerebbe crescere, imparare a dare un contributo più decisivo e rilevante al mio lavoro di consulenza, e lavorare seguendo sempre i principi di rispetto e uguaglianza nei quali credo profondamente. Come penso di raggiungerlo? Lavorando sodo! Credo fermamente nella crescita professionale basata sull’esperienza accumulata e fatta propria. Bisogna sempre stare con le orecchie e i pori aperti per incamerare tutto quello che si può, e poi metterlo in pratica. Sbagliare, all’inizio, riconoscere i propri errori e punti deboli, e cercare di migliorare la volta successiva. Per raggiungere un obiettivo bisogna fare, ed esserci sempre con la testa. Certo, poi mi piacerebbe che ci fosse qualche opportunità in più, ma questa forse è impazienza, o una situazione di (mancanza di) opportunità lavorative che andrebbe rivista in toto, ovunque. Penso comunque che dandosi da fare in qualche modo si riesca sempre a raggiungere i propri obiettivi, e che sia questa la formula “vincente”.
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su Facebook Mariangela e Jessica hanno una bellissima pagina/gruppo http://www.facebook.com/donnecheraccontanoledonne che vale la pena di visitare, sempre aggiornata..