La poesia sonnecchia sotto i luoghi comuni sulla difficoltà di comprensione. Intervista a Antonella Bukovaz che ci parla della sua videopoesia.
Abbiamo conosciuto Antonella Bukovaz, per caso, così lontana com’è dai circuiti editorial ed artistici. Ma ci è piaciuta subito e l’abbiamo voluta conoscere. Antonella Bukovaz è originaria di Topolò, un paese di poco più di trenta abitanti situato sul confine italo-sloveno nel quale, dal 1994, ha luogo la manifestazione artistica internazionale Stazione di Topolò / Postaja Topolove.
In qiuelòla occasione partecipa all’organizzazione della Stazione. Dal 2005 si dedica prevalentemente alla videopoesia e alle interazioni tra parola, suono e immagine. Vive a Cividale del Friuli. Il suo esordio in poesia è del 2006, con il libro Tatuaggi, edito da Lietocolle.
Com’è nata la sua vena artistica?
Vivere in un paese lontano dalle grandi folle e dalla confusione aiuta la vena poetica? Gli artisti di città sono condannati al rumore?
Ho cominciato a scrivere che avevo già quarant’anni ed è stato come se il mio stare a guardare, il mio leggere, il camminare, il lavorare e tutto il resto prendesse improvvisamente a scorrere sulla pagina sistemando parole in forma di poesia. Ho un compagno al quale leggevo le prime cose e ne avevo in cambio forza e quasi una nuova forma d’amore. Erano versi “quotidiani” ed era un modo per tirare fuori un altro sguardo. Vivevamo a Topolò, un paese di poche decine di abitanti, al confine con la Slovenija. Poche case addossate a un crinale tra montagne che sono sempre state il limite del mondo latino, l’inizio del mondo slavo e uno dei peggiori precipizi della follia umana, con le sue guerre e le sue manovre di annientamento. Non penso ci siano luoghi e non-luoghi per la poesia. Penso ci sia la poesia in ogni luogo così come penso che al di là della parola, ci siano diversi modi di fare poesia, modi che si realizzano stando in ascolto e infilandosi nel corso delle cose, salendo e scendendo dal treno della visione.
Lei si sente più slovena o italiana? Come si vive un’esistenza di confine di due terre?
Io mi sento, molto. Eccomi qui. Mi identifico con il mio corpo e basta. L’identità è un’invenzione della modernità per ottenere un controllo politico e dividere gli individui, non voglio far parte di questo gioco. E in ogni caso sono d’accordo con chi diceva che è il mondo lo spazio in cui giochiamo la nostra identità. Essere cresciuta su un confine così massacrato dalla storia e all’interno di una minoranza linguistica sempre impegnata a difendere i propri diritti, e viverci ancora oggi è per me fonte inesauribile di sentimenti contrapposti. Con la mia lingua madre per esempio ho una relazione complessa. Isolata per secoli da montagne arrotondate dal tempo, meticciata con il friulano e il tedesco, addolcita con sovrabbondanza di vocali dall’uso familiare e dai canti, l’ho recuperata che avevo già 20 anni. Ne ho una padronanza parziale, troppo poco per farne lingua del corpo. Così scrivo in italiano con un lieve peso sui bordi. Dalle mie parti la trattano come un tempio ma io la penso come erranza e dimora insieme. Ho scritto per lei un canto “Canto per lingue sconfinate” che è la seconda parte di una raccolta che ho chiamato “Storia di una donna che guarda al dissolversi di un paesaggio.” E’ un testo che compone la suggestione della sparizione come passaggio, è un’invocazione, una lotta, un’imprecazione, un sacrificio perchè tutto sparisca e rinasca a nuova vita.
“Appartenere ” a una minoranza significa risolvere la propria ricerca di senso, rimuovendo le tensioni interne alla comunità per riferirle a un oggetto esterno percepito solitamente come persecutore o comunque peggiore di noi. Si sprangano le porte, ci si chiude a difesa, non si diviene mai dei curiosi. La tradizione viene intesa solo nell’atto di conservazione e trasmissione senza quella componente che prevede un tradimento e permette crescita al mondo. Situazioni così complesse formano però un bacino di energie potenti sempre in movimento, capitale per una possibile cultura della diversità, elemento corroborante per chiunque viva o voglia passare da queste parti. Voglio però restare vigile.
Andrea Zanzotto, sul Piccolo di Trieste di pochi giorni fa, scriveva in un articolo:“La memoria è minacciata non solo dalle spinte globali, per cui si fanno sparire migliaia di piante e migliaia di lingue minori o dialetti, ma anche dalla falsa difesa delle radici , dell’identità basata sul fraintendimento e dall’ignoranza che generano per contrapposizione i fondamentalismi localistici.”
Per altro io di questa mia comunità sono parte attiva e combattente. Fino dalla sua fondazione lavoro nell’unica scuola bilingue, insegno sloveno e lo parlo con le mie figlie, collaboro all’organizzazione di eventi culturali e sono presente nelle varie correnti operative della comunità.
Pensa che la poesia sia il linguaggio dell’anima? Può parlarcene? Le sue poesie sono spesso corredate da video? La parola ha bisogno dell’immagine per palesarsi?
La mia unica raccolta pubblicata è Tatuaggi, per i tipi della Lietocolle. Vi sono raccolti quei versi “quotidiani” di cui dicevo prima. Michele Obit, giornalista, amico e poeta ne scrive e gliene sono grata: “Antonella racconta di un attaccamento alla propria terra, ma sempre con la disponibilità ad aprirsi al mondo (“non sto in piedi e la terra non manca / io però cerco un’altra materia / a sostenere la geografia che porto / tatuata sotto la pianta dei piedi). Traspare anche la necessità di interrogarsi sulla funzione della propria poesia, sulla parola che diventa qualcosa di concreto, forse di definitivo ( “per anni ho avuto pensieri che non ho scritto / e adesso che li scrivo / che differenza c’è? / Dalla soglia della casa / getto un osso al cane). E nella quotidianità, per esempio di una cucina o di un’attesa al semaforo, prendono vita pensieri che, messi assieme, compongono una figura non banale e non unica, poiché riflette l’ansia e la gioia di esserci che sono i due poli con i quali si dibatte l’uomo odierno.
A fine maggio ritirerò a Modena il Premio Delfini per “Storia di una donna che guarda al dissolversi di un paesaggio. È un lavoro di cui sono molto contenta perché mi ha dato modo di collaborare con artisti di altre discipline con i quali comporre un linguaggio ulteriore. Un linguaggio composto da parole, immagini e musica. Le parole certo non hanno bisogno di nulla, sono io ad avere bisogno di una relazione e di una mescolanza che mi porti geograficamente e interiormente a comporre altri sguardi. E poi penso che nel momento in cui un poeta si propone come lettore assuma una responsabilità verso l’ascolto e che debba quindi prendersi cura della propria parte performativa . Per me questo si traduce in ricerca verso le altre arti. Sarà che, come dicevo, vengo da una terra di molte chiusure e quindi il mio è, per reazione, un protendermi sempre oltre.
Ora, concluso un nuovo testo che fa del confine suo centro e che ho chiamato “Al limite” , lavoro sulle immagini che vorrei contribuissero all’ascolto, mentre per i versi di “Canto per lingue sconfinate” cerco di comporre una lettura con l’aiuto di un programma al computer che mi permette di provocare suggestioni sonore e lavoro molto sul ritmo.
Ecco, non è che la sola poesia non mi basti, la relazione con chi ascolta la lettura è in ogni caso un momento straordinario, solo che mi sembra interessante per tutti quando le arti si incontrano e creano… un’arte ulteriore.
Perchè oggi si consuma così poca poesia? Troppo frastuono o troppa fretta?
Ma è così vero che si legge poca poesia? I numerosi festivals mi farebbero pensare al contrario, anche perché molti hanno una presenza di pubblico notevole. Certo non si raggiungono mai le folle, ma non credo sia neanche un’intenzione, se non dell’amministrazione che eventualmente sponsorizza il festival. Il fatto semmai è che, scomparsa la beat generation dei poeti americani, i giovani sono rimasti senza la punta della lancia, senza quella voce potente, contraddittoria e rivoluzionaria che potesse rappresentarli e quindi avvicinarli alla poesia. Sono loro quelli che mancano all’appello. E poi c’è che la voce poetica è permeata da luoghi comuni sulla difficoltà di comprensione e accusata di essere una forma anacronistica per una lettura della realtà: di questo è responsabile la scuola. Non solo nella scuola la poesia è assente o proposta in modo odioso e accademico, ma è addirittura assente qualsiasi forma di espressione poetica e certo non potrebbe essere diversamente in uno stato che continua a intendere l’educazione come una forma di addomesticamento. Una scuola in cui ci si occupa unicamente e male di competenze, diciamo così, razionali, al servizio di un sistema che macina tutto, robotizzato e che robotizza. Guidato per di più da persone assolutamente convinte di vivere in un mondo da perpetuare, omologando tutto e tutti. La scuola, al servizio di un tale sistema, impedisce ai suoi allievi quella creatività che li renderebbe non solo diversi ma soprattutto pericolosi. Fa in modo che tutti dimentichino che imparare è godere e che è il piacere ad attivare, permettere e rafforzare qualsiasi competenza .
I figli di una scuola così, che dà poco e chiede poco, non potranno neanche mai ribellarvisi e quindi non avranno mai bisogno della poesia.
E qui mi fermo, che sulla scuola ne ho vagoni di cose da dire…
I più grandi poeti sono stati uomini. O almeno i più grandi poeti conosciuti. Ne trovi una ragione?
La trasmissione della conoscenza, le conseguenti modalità di interazione sociale e quindi politica sono campo di influenza costruito da uomini a misura di uomini. Le donne ne sono parte, ma certo non ancora così attiva da modificarne i criteri di fondazione. D’altronde fino al secolo scorso il ruolo delle donne si è sempre giocato tra le mura domestiche, in famiglia, mentre quello degli uomini si è realizzato in società. Tutto è partito secondo me, da molto lontano ed esclusivamente per motivi legati alla forza (e non alla resistenza) fisica.
Tutto ciò ha contribuito a fare della natura femminile un’attitudine che non la rende così diffusamente interessata all’affermazione sociale come lo è invece l’uomo, oltre al piccolo particolare delle gravidanze e dell’allevamento dei piccoli.
In ogni caso i grandi poeti sono proprio grandi poeti e le poche donne che emergono isolate qua e là lo sono altrettanto.
Quale poeta/poetessa sta più sulle sue corde?
Il poeta che è stato la mia prima consapevole lettura con i suoi “Quattro quartetti è T.S. Eliot, ed era molto tempo fa. Ci ho trovato il mio canto alla natura e una filosofia dell’immenso e del semplicemente piccolo che mi ha resa felice. Il tempo e la sua percezione, il luogo e i suoi significati sono per me una traccia costante. Poi ci sono i russi o meglio le russe: la classica Achmatova e la trasgressiva Cvetaeva. E c’è la scoperta di Alda Merini , della sua storia e della sua libertà di donna e di poetessa.
C’è Rilke ma anche i testi delle canzoni di Nick Cave, il suo mondo buio e un po’ casuale e la musica della sua voce. Anni fa mi sono imbattuta in Les Murray, il suo romanzo in versi “Freddy Nettuno ha conquistato il lato del mio letto dove tengo le letture più care e non l’ha più lasciato: uno scrivere del dolore e della purezza come percorso per raggiungere il senso delle cose. A Patrizia Valduga ho sentito una volta raccontare della libertà che trova solo nella gabbia della metrica. Una donna colta che mette mano nelle cose e le strazia accarezzandole. A teatro vado volentieri ad ascoltare e vedere Mariagrazia Gualtieri, la poetessa del teatro italiano. Vado a incontrare la grazia e il binario dritto dei suoi versi. Così come vado a prendermi qualche pugno nello stomaco alle rappresentazioni dei Raffaello Sanzio. Poi… le musiche di Arvo Part, di Erik Satie, di Terry Riley o di Fred Fritt mi attivano come fossi una poesia, mi portano, mi spiegano, mi aprono, mi squartano, mi pacificano…