Ricerche di Simona Morini, docente Iuav Venezia. Il viso è il protagonista nei rapporti interpersonali.
Nella faccia c’e’ tutto, diceva gia’ Cicerone. Il sesso, l’eta’, l’estrazione sociale, le sofferenze o i piaceri della vita, l’impronta della personalita’, il carattere, l’umore, le emozioni del momento. In ogni istante, volenti o nolenti, gli altri si servono della nostra faccia – forse ancor piu’ che dei nostri gesti e delle nostre parole – per aver accesso ai nostri stati d’animo.
A concordare con la grande giurista, avvocata e filosofa romana, Simona Morini, docente di Teoria delle Decisioni Razionali alla Facolta’ di design e arti dello IUAV di Venezia, impegnata con Patrizia Magli e Paolo Fabbri, a un progetto di ricerca sul design del volto.
A sentire l’esperta, anche una semplice conversazione sarebbe un piccolo capolavoro. Mentre diamo forma ai nostri pensieri traducendoli in frasi e parole- afferma- calcoliamo con esattezza i tempi dei turni del dialogo, diamo segni di approvazione o disapprovazione, sorridiamo, ridiamo, ci imbronciamo, imitiamo le espressioni e i gesti gli uni degli altri.
Maggiore è la familiarità (o ”la simpatia”) delle persone che abbiamo di fronte, meglio funziona il meccanismo. E’ noto che negli innamorati questo flusso di comunicazione, fatto di sguardi, gesti e sorrisi è massimo, mentre tutti abbiamo sperimentato i silenzi, le interruzioni, la fatica della conversazione con persone sconosciute o, semplicemente, antipatiche.
Il viso è, dunque, per la docente il protagonista dei confronti interpersonali , indispensabili non solo allo scambio sociale, ma anche alla stessa formazione della nostra personalità.
Diventiamo quello che siamo leggendo le espressioni nel volto prima della madre poi delle persone con cui veniamo via via in contatto, imitando prima, poi diventando sempre più autonomi nel gestire i tratti del nostro volto e imparando a leggere in quello degli altri. E’ difficile scorgere una natura umana senza tutto questo.
Ma se da bambini ci trovassimo a interagire con degli animali – dei lupi o dei cani, per esempio – come accade ai bambini selvaggi – risuoneremmo con loro- spiega – Ci esprimeremmo con ululati e rapidissimi sguardi e la nostra espressivita’ si limiterebbe a poche espressioni primarie (quelle che sono presenti, appunto, negli animali). Nè le espressioni che consideriamo piu’ tipicamente umane (come il linguaggio, il gioco sofisticato degli sguardi, ecc.) possono essere recuperate in seguito. Lo scambio con gli altri – siano essi umani, animali o macchine – è quindi fondamentale per arrivare a definire la nostra individualità. E questo scambio – sul piano emotivo, almeno – passa attraverso la faccia.
Jonathan Cole, in About face , ha cercato di capire cosa significa perdere la faccia. I ciechi dalla nascita sviluppano la capacita’ di capire le emozioni degli altri attraverso le tonalita’ e le inflessioni della voce. Ma non padroneggiano sempre del tutto le pause del discorso. Tendono a parlare troppo – o troppo poco – perche’ la voce da sola non basta a perfezionare i turni della conversazione. Per le persone diventate cieche la situazione e’ diversa. Continuano a conservare nella memoria le facce che hanno conosciuto in passato (spesso ne sono quasi ossessionati) e, per analogia con quelle, costruiscono immagini mentali delle facce delle nuove persone che conoscono. Nei primi anni, i non vedenti distinguono le persone a cui associano una faccia da quelle che non hanno mai visto prima. Poi, con il passare del tempo, questi ricordi – e l’immagine della propria stessa faccia – si affievoliscono. Si comincia a sentire il sorriso come qualcosa di forzato e, pian piano, si sorride sempre di meno. Questo provoca, normalmente, un periodo di depressione e solo dopo quattro- cinque anni puo’ emergere una diversa forma di percezione del mondo. Attraverso la voce, appunto, e altri modi di indovinare le emozioni altrui e far capire le proprie.
Diversa ancora è la situazione di chi soffre di autismo, cioè dell’incapacità di intrattenere relazioni con gli altri. Queste persone non sono interessate ai volti, non riescono a scambiare sguardi e hanno essi stessi scarse capacita’ di esprimersi con la faccia o con i gesti. In realta’ sono in grado di riconoscere espressioni di gioia, o di dolore. Quello che sembra mancare loro è una teoria della mente o una empatia con il prossimo.
Infine, c’e’ il caso di chi non riesce a muovere i muscoli della faccia: una condizione associata a un terribile isolamento, che induce forti squilibri nei rapporti interpersonali. In tutti questi casi – che comportano diversi gradi e tipi di isolamento sociale – si osserva un profondo mutamento della propria personalità seppure in direzioni imprevedibili e variabili da persona a persona.
Questo spiega anche perche’ tendiamo a truccarci e a intervenire sul nostro aspetto fisico. Allora, perché ci trucchiamo allo specchio? Cerchiamo di vederci – replica Morini- come ci vedono gli altri e di apparire nel modo che ci sembra migliore. Costruiamo la nostra immagine per gli altri ed è attraverso gli altri – come il Gege’ Moscarda di Pirandello – che si plasma il senso che abbiamo della nostra identità – sia essa individuale o di gruppo (come accade con le mode).
Il problema è oggi particolarmente attuale perche’ disponiamo di nuovi, efficaci strumenti per modificare il nostro corpo. La chirurgia plastica ci mette potenzialmente in grado di progettare il nostro volto ed e’ in linea di principio possibile, attraverso protesi o trapianti di faccia, cambiare radicalmente il nostro aspetto fisico. Cosa comporta questa nuova possibilita’? Secondo Morini non è facile dare una risposta univoca. Dipende dal significato che ognuno attribuisce al cambiamento, dalle varie ragioni per cui si cerca di ringiovanirsi, cambiarsi il naso, gonfiarsi le labbra, farsi un tatuaggio. C’è chi, dopo il cambiamento, vive meglio, chi non è mai soddisfatto del nuovo aspetto, chi si rovina. Questa interazione è difficile da cogliere sul piano puramente scientifico perchè ha a che vedere con l’idea che ognuno ha della propria individualita’ (alcuni direbbero con la propria idea di persona). Ma è chiaro che ogni seria anomalia nella faccia compromette seriamente la possibilita’ di condurre una vita normale e diventa una discriminazione talmente forte sul piano delle relazioni sociali che ultimamente si è creata una associazione Changing faces, volta a sensibilizzare il pubblico sul problema e a dare supporto psicologico a persone sfigurate o deformi. Ogni deformazione della faccia è inguardabile per gli esseri umani – che distolgono lo sguardo e provano e manifestano sentimenti di forte imbarazzo – mentre e del tutto indifferente agli altri animali.
Isabelle Dinoir, orribilmente sfigurata dal suo cane e protagonista del primo trapianto di faccia, appena tornata a casa per prima cosa ha ricomprato un cane, l’unico essere che riuscisse a guardarla, a festeggiarla, a trattarla normalmente dopo l’incidente. Difficile dire cosa abbia significato esattamente per la Dinoir portare su di sè buona parte del volto di una donna morta suicida. Dalla ricostruzione, racconta Morini, della sua storia fatta da Noelle Chatelet (Le baiser d’Isabelle) risulta una sorta di sdoppiamento. Un sentimento fortissimo di riconoscenza e la volontà di tenere in vita e dare espressione al pezzo di volto di una persona che le ha consentito di riprendere una esistenza quasi normale. Certo, da quel giorno la sua individualità non è mai piu’ riuscita a scindersi da quella della donatrice: non si puo’ dimenticare qualcosa che si vede ogni giorno nello specchio. La sua identita’ era legata indissolubilmente allo sforzo di animare il volto dell’altra.. E forse, senza questa volontà, il suo cervello non avrebbe riconosciuto il corpo estraneo come fosse proprio.
Quale senso ha questo discorso se pensiamo al futuro? Da un lato- dice- possiamo pensare che il nostro viso – e molte altre parti del nostro corpo – possano un giorno essere sostituite da parti artificiali, dall’altro le macchine cominciano a essere dotate di espressività.Questo discorso apre nuove prospettive per il design, che potrebbe in futuro estendersi dagli oggetti ai corpi. Si può pensare anche di creare una personalita’ per le macchine.
Tra qualche anno i robot potrebbero essere molto simili all’uomo e questo pone interessanti problemi relativi al rapporto uomo-macchina. Nessuna macchina è finora riuscita a superare il test di Turing (cioe’ ad esprimersi in modo così soddisfacente da essere indistinguibile da un essere umano). Dopo un pò qualcosa, nella conversazione con una macchina, non torna. Ma si stanno facendo passi avanti. Resta pero’ la cosiddetta uncanny valley, l’effetto perturbante e repulsivo esercitato dagli androidi quando sono troppo similia gli esseri umani. Infatti- conclude la docente – nella valle dell’inquietante va forse ricercato il confine invalicabile tra naturale e artificiale . Al di la’ delle reazioni che possono suscitare in noi, i volti delle macchine restano per ora diversi da noi almeno per una cosa. Su di essi il tempo non lascia traccia, le esperienze non riescono a lasciare il loro segno. Non cambiano, invecchiano e muoiono diversamente da noi: si afflosciano e perdono la loro forma.