di Giulia Cortese
I fardelli che appesantiscono il lavoro femminile in Italia
Il settimanale inglese “The Economist” ha dedicato la prima storia di copertina dell’anno 2010 alla celebrazione di quello che sembrerebbe essere un importante “traguardo”: Per la prima volta nella storia degli Stati Uniti, le donne si accingono a superare il 50% della forza lavoro (The Economist, 2-8 Gennaio 2010).
Niente di strano, considerando che le donne costituiscono da anni la maggior parte dei lavoratori professionisti in molti Paesi industrializzati. In quasi tutte le economie occidentali rappresentano 6 laureati su 10, e il 7,4% delle grandi multinazionali conta almeno una donna nel consiglio di amministrazione.
Questi dati rendono sconfortante il confronto con la realtà italiana. Qui le donne sono sottoimpiegate e pagate meno degli uomini, si sobbarcano anche la cura della casa, dei figli e degli anziani. Dopo quasi quarant’anni di sforzi legislativi per garantire pari opportunità, le donne non hanno ancora raggiunto lo stesso trattamento economico degli uomini. Questo non è solo il risultato del fenomeno ben noto della segregazione occupazionale, per cui le donne sono concentrate nei lavori meno pagati: anche i successi delle donne al top della scala occupazionale sono meno brillanti di quanto possono apparire a un primo sguardo.
L’Italia, poi, si stacca di varie misure rispetto ad altri Paesi dell’area Ocse. Nel nostro paese, infatti, i tassi di occupazione femminile sono molto più bassi di quelli maschili. La differenza è di oltre 20 punti percentuali secondo i dati più recenti. Per dare un’idea dell’enormità di questo distacco, diciamo che per la Francia si registrano circa 10 punti percentuali, e per la Svezia parliamo di 5. Con un tasso di occupazione femminile del 46% nel 2008 (per gli uomini il tasso è il 69,9%), siamo la “pecora nera” d’Europa, dove il tasso di occupazione femminile ha ormai raggiunto il 57,4%. Le donne italiane sono ben lontane dal raggiungere il traguardo del 60% in termini di occupazione, auspicato dal Trattato di Lisbona per il 2010. C’è però da considerare un fatto importante, ossia che nei Paesi con bassi tassi di occupazione femminile solo le donne con alte prospettive salariali lavorano. Per tutte le altre trovare o mantenere un posto di lavoro è difficilissimo, se non impossibile, e anche questa è una causa della relazione negativa tra tassi di occupazione femminile e disuguaglianze salariali di genere. A proposito di questa questione, mi sembra doveroso soffermarmi su due aspetti in particolare, “effetti di coorte” e “offerta di servizi alle famiglie”. Per “effetti di coorte” si intende l’esistenza di forti differenze nei tassi di occupazione di donne di età diversa. In altre parole, i livelli occupazionali delle donne in età matura (le ultracinquantenni, per intenderci) sono generalmente molto bassi, e ciò vale soprattutto per le regioni dell’Italia meridionale. Questo accade per ragioni legate alle caratteristiche dell’offerta di lavoro: minore livello di istruzione delle vecchie generazioni e prevalenza di modelli culturali che vedono la donna soprattutto come casalinga. Ci troviamo di fronte anche a ragioni dovute alla domanda di lavoro, con una più alta incidenza del settore pubblico e una minore penetrazione del settore privato.
Sono fermamente convinta che gli interventi di politica sociale potrebbero fare molto per colmare le carenze e le differenze regionali ai servizi alle famiglie. In Italia le regioni non si comportano tutte allo stesso modo, anzi. L’Emilia Romagna sembra seguire il modello Finlandese, con tassi di occupazione femminile pari a 72 punti percentuali e un divario salariale di genere di 15. Le regioni del nord ovest e la Lombardia sono molto simili a Paesi come Francia e il Belgio, con differenziali uomo/donna nei tassi di occupazione inferiori al 30%, e con un gap salariale di poco più di 10 punti percentuali. Il Sud appare invece gemellato alla Grecia: il suo tasso di occupazione femminile è di almeno 40 punti percentuali inferiore a quello maschile. Secondo i dati raccolti da un recente studio condotto da Daniela del Boca e Daniela Vuri, vi è un grosso divario anche nella presenza di asili nido in Italia. Oltre a essere pochi in generale in tutto il territorio nazionale, costano molto e sono disponibili soprattutto nelle regioni del nord. Altro problema da non sottovalutare è la scarsa flessibilità offerte da queste strutture, così come dalla scuola primaria e secondaria. Gli orari giornalieri sono di gran lunga più brevi di quelli offerti dagli altri Paesi europei. In Italia, infatti, a tutto questo consegue che la percentuale di donne che lascia il lavoro per motivi familiari è rimasta quasi del tutto costante negli ultimi 15 anni, ovvero circa il 22% che sale al 30% per le donne sposate (Rivelazione Trimestrale sulle Forze di Lavoro).
La presenza di anziani in famiglia è un ulteriore ostacolo per le donne che vogliono mantenere un’occupazione, specie per quelle in età compresa tra i 50 e 60 anni. In Italia più del 80% dell’assistenza domiciliare è svolto da amici e parenti, e solo il 10% da servizi privati, ossia le badanti. Anche in questo caso il settore pubblico svolge un ruolo del tutto insignificante.
La conciliazione di impegni familiari e lavoro non è responsabilità esclusiva delle istituzioni, e quindi delle politiche sociali, ma anche di aspettative e di comportamenti familiari che hanno subito ben pochi cambiamenti nel tempo. Nei confronti internazionali, come spesso ci capita, non facciamo una bella figura. Secondo una recente ricerca Istat, le donne italiane hanno i più alti carichi di ore lavorative non pagate in Europa (quelle svedesi hanno i carichi minori), mentre gli uomini italiani dedicano una proporzione di tempo minore rispetto agli uomini di tutti gli altri Paesi alla cura dei figli, o alla cura della casa. Essi si occupano quasi esclusivamente del lavoro remunerato. E’ evidente e auspicabile che anche qui qualcosa cambi. Ma come? Io credo che bisognerebbe agire a tutti i livelli, iniziando col capire le esigenze professionali delle donne quando entrano nel mercato del lavoro, per poterne comprendere le scelte. Una donna adeguatamente remunerata e motivata sarà sicuramente anche più restia ad abbandonare il posto di lavoro dopo la nascita di un figlio. Bisognerebbe poi proseguire con adeguate politiche di sostegno all’occupazione.
Troppo spesso le donne si sentono abbandonate nel loro ruolo di madri “tuttofare”, costrette a fare i salti mortali per conciliare vita lavorativa e vita familiare. Aumentare la disponibilità di asili nido comunali è una priorità fondamentale del paese, ma questi devono anche essere accompagnati da orari compatibili con un’occupazione a tempo pieno. Si potrebbe anche pensare a sgravi fiscali volti a facilitare il re-ingresso nel mercato del lavoro delle donne che hanno interrotto per un certo periodo la loro carriera per dedicarsi alla cura dei figli. Sarebbero passi fondamentali per un vero cambiamento.
(*i dati numerici derivano da una ricerca di Emilia Del Bono e Daniela Vuri, entrambe ricercatrici*).
Giulia Cortese – Classe 1988, nata a Buenos Aires ma romana di adozione. Linguista e aspirante giornalista professionista, è appassionata di comunicazione in tutte le sue forme. Nel 2010 approda nel Partito Radicale, e da qui inizia il suo impegno nell’associazionismo e nella politica. Firmataria del manifesto “Fermare il Declino” di Oscar Giannino, è frequentatrice di numerosi think-thanks sul pensiero liberale.