Nel caso di parto anonimao, può il figlio adottato alla maggiore età conoscere il nome della madre biologica?
Nel nostro Ordinamento giuridico esiste una norma, in tema di filiazione, che tutela la donna partoriente nell’ipotesi in cui decida di restare anonima e di non riconoscere la propria creatura, dopo il parto.
Tale norma si inserisce nel diritto di famiglia, così come modificato ad opera della riforma del 1975, attribuendo la facoltà alla donna di una scelta fondamentale: quella di essere madre, riconoscendo l’essere da lei partorito, ovvero, di non esserlo, negandone il riconoscimento.
Da tale ultima ipotesi, scaturisce un’immediata conseguenza che è lo stato di adottabilità del neonato, da parte di quelle coppie che ne abbiano fatto richiesta, possedendo i requisiti previsti dalla legge.
Per comprendere alla luce di quali principi sia possibile, pur se opinabile, bilanciare i diversi interessi coinvolti, occorre gettare uno sguardo nel panorama legislativo internazionale, soffermando l’attenzione, in particolare, sulle Convenzioni internazionali e sulla normativa comunitaria, in materia.
La Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia del 20 novembre 1989, all’art. 7, riconosce all’adottato “nella misura possibile, il diritto di conoscere i suoi genitori”, così come la Convenzione di La Haye del 29 maggio 1993 “sulla protezione dell’infanzia e sulla cooperazione in materia di adozione internazionale”, all’art. 30, prevede che “gli Stati assicurino l’accesso del bambino o del suo rappresentante alle informazioni che essi detengono sull’origine del bambino stesso, sull’identità della madre e del madre, e sul passato clinico del figlio e della sua famiglia biologica”.
Il Parlamento Europeo, inoltre, con Raccomandazione n. 1443 del 2000 “per il rispetto dei diritti del bambino nell’adozione internazionale”, aveva già invitato gli Stati “ad assicurare il diritto del bambino adottato di conoscere le sue origini, al più tardi, al compimento della maggiore età, ed a eliminare dalle proprie legislazioni nazionali ogni disposizione contraria”.
Alla stregua di tali principi si dovrebbe concludere per una posizione a favore del riconoscimento del diritto di colui o colei di poter accedere alle informazioni riservate qualora fosse un suo desiderio, al compimento della maggiore età.
A tale palese constatazione non si raggiungerebbe qualora si considerasse un aspetto non affatto trascurabile, a mio modesto avviso e che postula un ulteriore interrogativo: per quale motivo una persona dovrebbe essere messa a conoscenza delle proprie origini qualora al momento stesso della sua nascita la madre non lo ha voluto o potuto riconoscere? Quali sono gli effetti che potrebbero scaturire da una tale consapevolezza e quale l’impatto sulla sua nuova famiglia adottiva, nell’ambito della quale si è sviluppata la sua personalità?
Nella condivisione di una linea coerente tra quanto dispone la legge in ordine al parto anonimo che tutela il diritto alla riservatezza della donna che sceglie di non essere madre, nel momento in cui nega il riconoscimento alla propria creatura nata, e il denegato accesso alle informazioni alla medesima persona che, al compimento della maggiore età volesse accedere alle informazioni per conoscere le proprie origini, si osserva che la legge francese, accettando che sia la decisione insindacabile della madre, qualunque ne sia il fondamento, a giustificare il mantenimento del segreto, costituisce una sorta di diritto di veto puro e semplice rispetto al quale i diritti del figlio, garantiti dalla Convenzione, sono dimenticati, pur scontando le critiche sulla figura della madre che dispone così di un diritto assolutamente discrezionale di mettere al mondo un figlio nella sofferenza, e di condannarlo, per tutta la via, all’ignoranza.
Tuttavia, si ribadisce quanto già asserito in precedenza che non viene tanto in rilievo la sofferenza per l’ignoranza alla quale – secondo una teoria contraria alla soluzione adottata – la creatura verrebbe condannata, quanto la sofferenza di sapere, in età adulta, di essere stata abbandonata, appena venuta alla luce.
Si può, dunque, ammettere che la rigidità di un sistema possa garantire maggiormente il rispetto per la dignità di chi sia “vittima” di parto anonimo, qualora non vi siano motivi gravi di salute per i quali la riconducibilità alle origini non si manifesti indispensabile?
La circostanza che non sia rimovibile, per il decorso di un secolo, il vincolo del segreto opposto dalla madre, rende applicabile una delle rare eccezioni che l’art. 24, comma primo, lettera a), della l. 241/1990 ammette rispetto all’accesso ai documenti amministrativi, in deroga al principio per cui il diritto d’accesso prevale sull’esigenza di riservatezza dei terzi ogni qualvolta l’accesso venga in rilievo per la cura e la difesa di interessi giuridici del richiedente
La questione spinosa verte sul principio della dignità umana, alla luce del quale molte dottrine europee hanno ancorato la loro tesi positiva che ammette il diritto della persona adottata post-abbandono all’accesso a tutte le informazioni sulla propria storia pre-adottiva.
Ad esempio, nel Regno Unito, è stato introdotto (nel 1991) l’Adoption Contact Register per consentire il contatto tra adottato e genitori naturali. Nulla quaestio se la madre, al momento del parto, non avesse espressamente richiesto di non comparire nel certificato di nascita, scelta, questa, che segna un irrevocabile desiderio di rinunciare alla propria maternità e che, pertanto, non si ritiene coerente con questo rimedio.
Altri Paesi europei fondano il diritto a conoscere le proprie origini biologiche sul principio della dignità umana e sul diritto al libero sviluppo della persona (Paesi Bassi, Spagna, Portogallo). Anche in questo caso si potrebbe replicare l’obiezione sollevata nel caso del diritto britannico, sulla considerazione che la persona abbandonata dopo il parto ottiene uno stato di immediata adottabilità e che, pertanto, può sviluppare tale personalità nell’ambito di una famiglia garantita dalla Costituzione ai sensi degli artt. 29 e 30 Cost.
Un rimedio ulteriore, previsto sia in Italia che in altri luoghi (Praga, Cracovia, Varsavia, Johannesburg etc) è l’esistenza delle culle per la deposizione anonima dei neonati che si trovano generalmente nei presidi ospedalieri (in Ungheria, nell’ospedale le mamme possono lasciare le proprie creature nel completo anonimato in una sala separata).
Un discrimen si pone tra gli stessi adottati, quelli prima riconosciuti e poi abbandonato e quelli invece mai riconosciuti prima dell’adozione. Nel primo caso, la legge sull’adozione, ai sensi dell’art. 29, quinto comma, L. 4 maggio 1983 n. 184 ( l. adozione), consente l’accesso incondizionato alle informazioni che riguardano la propria origine o l’identità dei genitori: non è così, invece, per il bambino non riconosciuto, se la madre ha dichiarato di non voler essere identificata.
A fondare la tesi che qui si sostiene, soccorre il comma 1, art. 3 del DPR 396/2000 (ordinamento stato civile) che prevede l’ostacolo giuridico all’accesso a tali informazioni “se la madre non ha voluto essere nominata”, così come ribadito dalla Corte Costituzionale la quale, chiamata a decidere della legittimità della norma, ha rigettato la questione perché non fondata, con la sentenza n. 425 del 2005. La Corte ha ritenuto, difatti, che “la scelta della gestante in difficoltà che la legge vuole favorire – per proteggere tanto lei quanto il suo nascituro – sarebbe resa oltremodo difficile se la decisione di partorire in una struttura medica adeguata, rimanendo anonima, potesse comportare per la donna, in base alla stessa norma, il rischio di essere, in un imprecisato futuro e su richiesta di un figlio mai conosciuto e già adulto, interpellata dall’autorità giudiziaria per decidere se confermare o revocare quella lontana dichiarazione di volontà”.
Posto che qui non si discute sulla presunta sofferenza di una creatura abbandonata – la quale neppure percepisce l’odore della madre che si allontana senza venirne in contatto, quanto, piuttosto, sulla reale sofferenza di un soggetto adulto che viene a “scoprire” di essere stato adottato perché abbandonato subito dopo la nascita, mi sento di concludere con un dubbio sulla necessità di riformulare una norma come quella, attuale, della L. adozione che “impone ai genitori adottivi di rendere edotto/a il/la adottato/a delle proprie origini, nei modi e nei termini che essi ritengono più opportuni, al fine di non creare disagi o traumi nell’eventualità che possa venire a saperlo da altre persone”.
Il mio dissenso, tuttavia, trova conforto in una parte della dottrina che non ha condiviso questo orientamento, parlando anche di “radicale mutamento dell’ottica” (A. e M. Finocchiaro) e sostenendo la tesi previgente della valenza interna ed esterna del segreto sull’adozione, operante nei confronti di chiunque, adottato/a compreso/a.
Un ulteriore elemento di criticità va rivolto, infine, al precario sistema di diffusione di un tale strumento legislativo che si pone quale rimedio estremo per situazioni così delicate; per l’appunto, la notizia di questa pratica legislativa che favorisce il parto anonimo dovrebbe essere divulgata proprio negli ambienti dove il dramma è vissuto all’ordine del giorno, pur non volendo affatto passare tale strumento quale alternativa all’aborto, poiché la vita è un bene prezioso che deve essere tutelato al di sopra di ogni motivazione che non sia grave e compromettente per la salute della madre e/o della propria creatura.