La scrittura di Martino Sgobba ci regala nove nuovi racconti, pubblicati con Giovane Holden Edizioni, di cui il primo dà il titolo alla raccolta “Il mare è soltanto acqua”
di Maria Grazia Tundo
“Il mare è soltanto acqua”, Ovvero quando la parola ridiventa pregnanza, costringe suadente alla lentezza della rilettura, della sosta, della connessione ai propri ricordi e in questo ci spiazza con un’emozione inaspettata, riesce a toccare una corda che da tempo non risuonava.
In ognuna delle storie si concretizza quell’attimo di comprensione che dal mondo ricade su di sé, bloccando per un attimo la continua fuga e avvicinamento alla verità impossibile dell’io e delle sue maschere; in ognuna si delinea una trasformazione, un passaggio esistenziale, di cui le stazioni ferroviarie si fanno correlativo oggettivo.
Nel primo racconto la campagna e le sue zolle assetate si confrontano con la scoperta di un mare che però “è soltanto acqua” da parte di una bisnonna che “si fidava soltanto degli ulivi, perché erano incatenati alle radici”. La figura di Angelina, nella sua distanza spaziale ed esperienziale, spinge il protagonista a confrontarsi con le proprie radici, a cui chiede un “più di esistenza”, una più precisa comprensione del tempo che lo abita. Questo racconto è un atto d’amore che si celebra proprio grazie alla distanza incolmabile di due vite diverse, reciprocamente incomprensibili e tuttavia legate dalla comune sorte dell’esistere umano. Il tratto che lega tutti i racconti è proprio questo amore che rispetta l’altro da sé nel mantenerne intatto il mistero, nel non assimilarlo ai propri orizzonti di senso. C’è amore nel lasciare andare, sembra indicarci Sgobba, nel non comprendere, nel non imporre la propria stentorea verità, perché si ama nell’incertezza dei segni, nella transizione tra stazioni, dove gli incontri sono lievi e tuttavia persistenti nella memoria, dove uno sfiorarsi di sguardi suggerisce il cambiamento e produce scrittura.
L’amore ha quindi varie forme in questo orizzonte narrativo: spazia da quello per luoghi sfiorati e mai definitivamente abitati, ma in cui talvolta dissolversi (“Gli occhi dell’Adda”) alla dedizione per un lavoro d’artigiano che si nutre di rigore, misura e bellezza, come nel breve e sorprendente racconto “Il colpo”; da quello per l’insegnamento vissuto con la sacralità della celebrazione di un rito quotidiano incarnato nella materialità dei corpi (“Il corpo docente”) al regalo di una paternità inaspettata e tardiva che libera da gabbie trasparenti che hanno la lucida perfezione del vetro; da stazioni in cui si incontrano angeli imperfetti (“Angeli custodi”) alla passione infranta per un’idea che trascina verso esiti imprevedibili (“Lenìn”).
La cifra di questi racconti è racchiusa nell’uso di una parola – decisamente controcorrente nella nostra epoca frenetica – che ti chiede di fermarti a gustarne la tessitura, a percepirne le risonanze, lontana dalla veloce informatività delle reti globali. C’è la cura sapiente di un linguaggio sottratto alla sciatteria della velocità; ne immaginiamo la lentezza faticosa dell’elaborazione che suggerisce anche a noi di ritagliarci un tempo interiore di attesa, memoria, riflessività, empatia. E’ parola che ci provoca all’ascolto di una temporalità umana che soltanto nutrendosi di silenzio e solitudine può riconoscere la meraviglia dell’incontro inatteso e dunque farsi agente di cambiamento.
Dal mare che è soltanto acqua e dunque incomprensibile per la bisnonna Angelina, i racconti di Martino Sgobba ci conducono progressivamente al mare di Nicola, non più Lenìn, (il protagonista dell’ultimo racconto) che ormai adulto impara a nuotare comprendendo che alla fine “si può avere un cielo che ci osserva e un altro che ci sorregge” e che dunque si può provare a vivere.
Maria Grazia Tundo, è dottore di ricerca in ”Teoria del linguaggio e scienze dei segni” e insegna Lingua e Letteratura Inglese in un liceo di Bari. Tuttavia, essendo il suo sguardo offuscato dal velo di Maya delle tecnologie informatiche, cerca di conciliare la dispersione in mondi digitali con la quotidianità del suo lavoro, costruendo reti di comunicazione che possano ridisegnare il concetto di ”distanza”.