La sterile polemica di Langone sulla cultura come contraccettivo, ha riportato all’attenzione la difficoltà per i giovani di costruire un futuro solido. Generazione equilibrista che cammina precariamente su una fune, ricordando l’atleta che passo dopo passo, con sudore e concentrazione cerca di raggiungere la meta.
Le difficoltà che ammalano la quotidianità sono molte: contratti che non garantiscono stabilità, stipendi che ormai dovrebbero cambiare ufficialmente nome in paghetta, affitti che mediamente vengono coperti con il 70-80% del salario mensile.
Questa fetta di società si trova immobilizzata nell’impossibilità di modificare la propria condizione. Studia, si specializza, partecipa a ogni tipo di concorso che possa rappresentare un’alternativa redditizia, si candida a qualsiasi colloquio che rappresenti un posto di lavoro e cosa ottiene nella maggior parte dei casi? Uno stage. Parola francese che all’inizio dell’entrata in uso nella lingua italiana, mascherava bene la semi-truffa che avrebbe rappresentato. Si parlava, infatti, di formazione pre-assunzione: un tirocinio formativo rivolto a giovani volenterosi disposti a rinunciare a un salario per un periodo determinato, con la certezza di diventare perfettamente idonei all’azienda che li avrebbe poi inseriti nell’organico.
Dato che siamo in Italia, il paese delle ‘trovate geniali’, lo stage si è trasformato in un bieco sfruttamento del lavoro, un meccanismo per evitare l’assunzione e, quindi, una retribuzione degna di essere chiamata tale. Si propongono stage di ogni tipo e per ogni settore lavorativo. Che siano gratuiti o con rimborso spese è sostanzialmente indifferente, poiché il compenso è talmente esiguo da non permettere alcun tipo di indipendenza.
Ai giovani vittime di un sistema ingordo e avido si imputata, oltretutto, l’incapacità di uscire dal nucleo familiare. Chi li ha chiamati ‘bamboccioni’, chi li considera incapaci di concretizzazione e chi come il nostro predicatore, li incolpa di essere la causa della massiva entrata di immigrati pronti a ripopolare il nostro Paese.
Per una volta non si vuole fare un discorso di genere, le difficoltà economiche sono un problema generazionale, nonostante sia noto che le donne sono maggiormente colpite dalla precarietà. I giovani che abbiano l’ardire di diventare genitori, aggiungono enormi difficoltà a quelle lavorative, difficoltà che spesso diventano insormontabili e che, quindi, impediscono la realizzazione della genitorialità.
Come si può pagare un affitto, le bollette, fare la spesa e mantenere un neonato, con uno stipendio che non supera i mille euro? Che stipendio servirebbe? Per quanto ci si possa barcamenare tra aiuti dei genitori, a loro volta spesso aiutati dai nonni, e doppi, tripli ‘lavoretti’ extra, la necessità economica, in caso di allargamento del nucleo familiare a due, si fa imponente. Pannolini, latte artificiale, passeggino (con i molti complementi necessari per dimostrarsi ossequiosi della legge) sono solo tre esempi di quanto possa incidere un bambino sull’economia familiare.
Se seguissimo la teoria del demografo Langone, potremmo risparmiare sul nido, perchè le madri sarebbero riposizionate a tutela del focolare, ma è realistico proporre di eliminare l’apporto di uno stipendio a un nucleo familiare già in equilibrio precario? La cosa bizzarra poi è che se da un lato si imputa alla generazione ‘affitto’ il calo demografico del nostro paese, dall’altra si impone agli avventurieri, che sfidano la sorte e orgogliosamente donano una discendenza all’Italia, uno standard di vita del neonato che supera di gran lunga quello dell’adulto. Il rischio? Molto semplicemente: rispondi positivamente alla richiesta di fare figli, hai uno stipendio minimo, non garantisci tutte le necessità che la pedagogia impone? I servizi sociali saranno costretti a toglierti quel figlio che tu, con molto coraggio, hai messo al mondo, per il quale senza dubbio hai fatto rinunce e sacrifici, al quale avresti dato tutto, ma per il quale non puoi avere di più di quello che hai e solo quando il mese ti sembra eterno riesci a capire che in fondo vi è una differenza sostanziale tra te e un equilibrista.
L’equilibrista rischia ogni volta la propria vita per sfida, tu rischi la tua e quella della tua prole per assecondare il desiderio naturale di genitorialità, desiderio che allora, con un po’ di buon senso, riponi in un cassetto perchè, in fondo, così bamboccione non sei.