Intervista con Marta Dassù, direttore della rivista “Aspenia”. Come le donne governano il mondo.
Chi ha detto che il potere è un affaire da uomini e che le scalate professionali sono precluse alle donne, dovrà ricredersi, scorrendo il curriculum di Marta Dassù e leggendo il suo ultimo libro ”Mondo privato e altre storie ”(Bollati Boringhieri), dove si può trovare anche “qualcosa di simile a una teoria su Freud e la politica estera”.
Marta Dassù milanese, 55 anni, ex consigliere per le relazioni internazionali di due presidenti del Consiglio (Massimo D’Alema e Giuliano Amato), oggi dirige il programma internazionale di Aspen Institute Italia ed è direttore della rivista “Aspenia”.
Il 28 novembre 2011 è stata nominata sottosegretario al Ministero degli Affari Esteri nel Governo Monti, giurando il giorno successivo. Il 27 marzo 2013 è stata nominata insieme al collega Staffan de Mistura viceministro degli esteri, in seguito alle dimissioni del ministro Giulio Terzi per il caso dei marò italiani in India.
Il 3 maggio seguente viene nominata Viceministro degli affari esteri sotto il Ministro Emma Bonino nel Governo Letta.
Nominata dal Governo Renzi nel C.d.A di Finmeccanica. Eppure non si sente una donna “potente”
Come fa una donna “potente” come lei a svestirsi e decidere di mettere in vetrina gli aspetti più intimi della sua vita? Non è rischioso?
Non mi considero una “potente”, cosa che naturalmente rende più facile l’idea di scherzarci un po’ su – su me stessa e sul potere. E proprio perché non mi considero una potente, non ho mai pensato che il mio racconto potesse mettere a rischio chissà cosa. Certo, se fossi stata Ministro degli esteri non avrei scritto un “taccuino poco diplomatico” proprio adesso. Ma la domanda è giusta, nel senso che è un’obiezione che ho ricevuto anche da alcuni amici quando ancora ero incerta se pubblicare o meno il mio libro. E ho risposto come sto rispondendo adesso.
E poi?
Insieme al fatto, secondario, che non sono Ministro degli esteri, c’è un’altra spiegazione, più importante. Non penso di essermi “svestita” in pubblico, anzi se posso essere sincera proporrei di abolire queste espressioni. Non farei mai niente del genere, anche per il bene del pubblico. Ho solo raccontato, in modo auto-ironico, alcuni miei pensieri sulla vita, alcune mie sensazioni e alcuni ricordi. E ho anche esagerato, volutamente: insistendo su tutto quello che mi rende difficile stare al mondo, o anche di più, e tralasciando quello che mi ha invece aiutato nella vita. Insomma: considero di avere scritto un libro, e con una certa dose di fiction, non una confessione. E non mi sono posta problemi di immagine. Mentre mi sono posta problemi di scrittura, cosa diversa. Come scrivere, che stile usare? Il mio titolo ideale, che all’editore non è piaciuto granché, era infatti un altro: “Qualcosa da dirmi”.
La sua carriera brillante contraddice la convinzione diffusa fra tante donne di non riuscire. a sfondare nell’ambito professionale solo perché donne.
Giusto. Ma di nuovo: ho avuto una carriera come altre, non la considero così brillante. Se non avessi il carattere del cavolo che racconto qui e là nel libro, avrei forse potuto fare qualcosa di più. Anche Woody Allen, che non è una donna, pensa che avrebbe potuto fare di più. Mi iscrivo a questa categoria.
Ma non spingerei troppo in là l’argomento: per le donne resta comunque difficile riuscire, perlomeno in media e perlomeno nel nostro paese. Basta guardare ai board delle aziende, per avere una conferma in negativo.
Nel suo libro scrive che l’America oggi è infelice. Ma se al posto di Barack Obama ci fosse una donna, Hillary Clinton o Michelle Obama, cosa cambierebbe?
Non credo proprio che Hillary Clinton saprebbe parlare alla società americana meglio di Barack Obama. Lo ha dimostrato la campagna elettorale: rispetto a Obama, Hillary è un politico tradizionale (al femminile come si dice?), rappresenta l’establishment del partito democratico. Obama è un leader carismatico di tipo nuovo, che parla invece al paese. Se poi riuscirà a renderlo più felice dipende da una cosa essenziale: se la crisi economica finirà in fretta. Ma dipende anche dalla fiducia che saprà ridare agli americani nell’immagine del proprio paese.
Almeno, forse, le donne americane al potere sarebbero più consapevoli degli uomini che una grande potenza per continuare ad essere tale deve cominciare a riconoscere i propri limiti.
Il potere viene esercitato in modo saggio quando se ne riconoscono i limiti. All’interno e sul piano internazionale. Sul piano interno, esistono dei checks and balances, per usare una famosa espressione americana: la divisione dei poteri e così via. Sul piano internazionale, limiti “costituzionali” non esistono, proprio perché non esiste un vero e proprio governo del mondo. E quindi i limiti dipendono dalla forza relativa di un paese, e dal modo in cui esso decide di esercitarla. Per l’America, che è in teoria la maggiore potenza del sistema di oggi ma che nei fatti è anch’essa vulnerabile, si tratta di decidere se convenga comportarsi con arroganza o con modestia. L’arroganza di Bush non ha pagato; Obama prova con la modestia, il dialogo, la mano aperta. Vedremo se riuscirà. Ma anche per Obama, non dimentichiamolo, all’America spetta un ruolo di leadership.
Se al tavolo dei potenti sedessero donne, come si affronterebbero i problemi di alcuni Paesi, come per esempio lo Sry Lanka, privi di petrolio e di appeal geopolitico? Forse ci sarebbe più posto per le “ragionevoli speranze”, di cui parla nel libro e la sovranità nazionale cesserebbe di essere un un dominio riservato?
Non so se le donne si comporterebbero in modo molto diverso. Forse se fossero in maggioranza, se fossero molte, e non delle eccezioni. Per ora sono poche e in genere si sono comportate come i loro colleghi. E in certi casi in modo deludente. Condoleezza Rice è stata, come segretario alla sicurezza nazionale, al tempo stesso dura e poco efficace. Un mix abbastanza deleterio. Angela Merkel appare molto equilibrata e probabilmente lo è; ma di fronte alla crisi economica globale, ha scelto una linea di egoismo nazionale. E non mi pare che si sia occupata molto dei problemi dei paesi meno avanzati o dei diritti delle donne sul piano globale. Questo lo hanno fatto alcune donne, ma quando sono state nelle posizioni “deputate a farlo: per esempio Mary Robinson, quando era commissario ai diritti umani delle Nazioni Unite. Ci sono molte altre donne che agiscono in questo senso: negli organismi non governativi, nel volontariato laico e cattolico o sul piano privato. Una quantità di donne che non vediamo e che non conosciamo. Ma che sono persone vere.
Da quanto si legge nel suo libro da sempre si sono intrecciati nella sua vita lavoro e affetti familiari. E soprattutto sembra che nel suo lavoro si faccia guidare da “una geopolitica delle emozioni. Molto interessanti le pagine finali in cui lei parla delle cosiddette “misperceptions”, immagini e segnali sbagliati, per esempio fra Stati Uniti ed Iraq. E’ cosi?
Certo, nella mia vita lavoro e affetti si sono intrecciati. Perché ho sempre lavorato molto; ed ero io. Una persona, quando lavora, resta in fondo quello che è, con i suoi punti di forza e le sue debolezze. La geopolitica delle emozioni è una provocazione intellettuale, più che una teoria vera e propria. E’ appena uscito un libro più serio del mio su questo, scritto da Dominique Moisi . Ma credo davvero che il rapporto fra psicologia e politica estera sia importante e venga trascurato. Pensiamo in genere agli Stati nazionali come attori razionali e unitari, mossi solo da interessi nazionali immutabili, da calcoli economici, da visioni geopolitiche, etc etc. In realtà, gli Stati sono rappresentati da leader che agiscono anche sotto l’impulso di percezioni, impressioni, rapporti personali, e che commettono degli errori. Nei rapporti fra Stati Uniti ed Iraq, le “misperceptions” sono state molte e spiegano almeno in parte le guerre del Golfo.
Ma la guerra si può evitare?
In certi casi sì, si sono evitate guerre specifiche che sarebbero potute avvenire. Per esempio: che il crollo del muro di Berlino, venti anni fa, non abbia prodotto conflitti, è stato il risultato di una serie di circostanze ma anche di scelte giuste. Ma al di là delle guerre specifiche, “la guerra” è una categoria generale, uno strumento della politica come diceva Von Clausewitz: e non penso che come strumento, il ricorso almeno potenziale all’uso della forza verrà mai meno. Le ragioni le ricordo nel mio taccuino, citando il famoso carteggio fra Einstein e Freud. Certo, rispetto alle guerre mondiali del secolo scorso, oggi i conflitti prevalenti sono locali (le guerre africane) o sono asimmetrici (gli interventi in Iraq o in Afghanistan): il che ha modificato, ma anche molto complicato, i concetti di guerra e la definizione di cosa significhi “vittoria”. In realtà, come dimostra il caso dell’Afghanistan, ricostruire un paese con interventi esterni è molto difficile, quasi impossibile. Costruire la pace è molto più difficile che vincere la guerra.
Come liberare tante donne ancora schiave in quei Paesi dove l’assenza di libertà politica e il fondamentalismo islamico si sono rafforzati a vicenda?
Ecco, questa è una domanda essenziale. E ce ne preoccupiamo davvero troppo poco. Obama ha deciso di tentare il dialogo con i regimi avversari, fra cui l’Iran e di tornare al realismo. Ok, ma speriamo che questo non significhi anche che l’America cesserà di interessarsi della difesa dei diritti umani in paesi come l’Iran o l’Afghanistan. E difesa dei diritti umani vuol dire prima di tutto, in questi paese, diritti delle donne. Parlo dell’America perché l’Europa è sempre stata più cinica, su questo.
Cos’è il potere nelle mani di una donna?
Non saprei in generale. Per me è la possibilità di prendere decisioni . Che diventano giuste quando rispecchiano un interesse non egoistico ma collettivo.
La sua vita professionale è stata determinata dal suo rapporto “particolare” con sua madre.
Sì, ma è troppo difficile spiegarlo in due parole. Direi che ciascuno vede nella propria madre non solo ciò che è e che è capace di dare; ma anche ciò che desidera vedervi. Io ho voluto vedere in mia madre la spinta al senso del dovere, al fare, e così via. Mia figlia non vede in me niente del genere. E sarebbe interessante capire perché. Nel mio taccuino questo rapporto verticale madre-figlia-madre-figlia è una linea di fondo: l’asse psicologico della mia vita, del mio senso di identità ma anche dei miei dubbi e di parecchi errori che ho probabilmente fatto. Sono le pagine del libro che preferisco e in cui penso si possano ritrovare molte altre donne.
Lei non è credente. Come pensa che sua madre la guidi oggi che non c’è più?
Non mi guida più, me ne sono liberata finalmente. Scherzo, ma è una battuta che avrebbe potuto fare mia madre, le sarebbe piaciuta moltissimo. E quindi la verità è molto semplice: continuo a comportarmi come se mia madre ci fosse. E in fondo c’è, è dentro di me, anche se mi manca tutti i giorni.