di M.P.Ercolini
I portatori di handicap, uomini o donne che siano, sono percepiti come diversi e in quanto tali costituiscono un terzo genere.
I rapporti fra diversabili e normodotati, a scuola, costituiscono un insieme eterogeneo di slanci e disagi, solidarietà ed estraneità.
Non esistono regole fisse nella relazione tra le due componenti e le dinamiche sono per lo più affidate alle iniziative dei singoli, ovviamente favorite ed instradate dal corpo docente. Non sempre i due mondi trovano lo spazio e il modo per conoscersi a sufficienza e per sviluppare quei legami che portano ad un reciproco arricchimento: schiacciati dalle esigenze strettamente didattiche, nella scuola superiore i percorsi condivisi sono rari. In tal modo l’approccio con il compagno o la compagna diversamente abile mette in luce quasi esclusivamente l’handicap che differenzia dal gruppo e non le emozioni, gli affetti e le pulsioni che accomunano ad esso.
Molto spesso i soggetti diversamente abili sono considerati asessuati o dotati di una sessualità incontrollata: in altre parole vi è il riconoscimento di un loro sesso biologico ma la negazione di un’identità sessuale intesa in senso più ampio. Questa condizione può essere ricondotta allo stereotipo, assai diffuso anche nella sfera dei normodotati, che associa alla sessualità il solo aspetto genitale.
I portatori di handicap, uomini o donne che siano, sono percepiti come diversi e in quanto tali costituiscono un terzo genere.
Tra i disabili le conseguenze di tale immaginario sono tante e complesse: il diritto negato ad un’affettività, la mortificazione con cui viene vissuta la propria fisicità, le violenze subite a causa di una mancata consapevolezza del ruolo di genere…
La disabilità rende sicuramente più laboriosa e conflittuale l’identificazione nei modelli di genere tradizionali.
Se la società si aspetta fin troppo spesso che le donne adempiano al ruolo di mogli e madri ed assistano le fasce deboli, per una donna disabile queste aspettative sono del tutto negate. La maternità di una donna disabile è ritenuta un profondo atto di egoismo e in presenza di un deficit, la femminilità viene volutamente soffocata: secondo l’immaginario collettivo, un corpo imperfetto impedisce di essere seducente e l’handicap, qualunque esso sia, non permette di sostenere la famiglia e di occuparsi della casa.
Lo stereotipo dell’angelo del focolare, in questo caso, prima discrimina, poi punisce.
Esistono numerose analogie tra i percorsi di emancipazione delle donne e dei disabili. Se le prime hanno voluto distinguere il dato biologico dal dato socialmente costruito, i secondi hanno scisso la propria disabilità effettiva dagli svantaggi dovuti ad una società impreparata ad accoglierli. Sia le donne che i disabili lottano per la crescita di autostima e consapevolezza e in quest’ottica lo slogan femminista «io sono mia» ha lo stesso valore del «niente su di noi senza di noi» sostenuto dai portatori di handicap.
Eppure il femminismo non si è occupato molto delle donne disabili, discriminate quindi più volte: dal movimento, che le ha ignorate, dalla scuola, che non le ha istruite (al mondo, soltanto l’1% sa leggere e scrivere contro il 3% degli uomini), dal lavoro, che non le occupa e dalla vita affettiva, che le marginalizza (si sposano più tardi delle altre donne e più tardi dei maschi disabili).
Inoltre le donne disabili, benché ritenute indesiderabili, sono frequente oggetto di violenze sessuali quasi mai denunciate, quasi mai registrate dalle statistiche.
Si tratta di abusi legati più all’esercizio del potere che alla libido e si manifestano anche in altre forme, fisiche e psicologiche: sterilizzazioni forzate, aborti selettivi, infanticidi, reclusioni e internamenti, tutte pratiche legittimate dalle paure e dalle inadempienze di una società impreparata.
Molti abusi vengono spesso ripetuti in modo continuativo, perché nella maggior parte dei casi sono commessi da familiari e da assistenti personali, e a volte si accompagnano a sfruttamento economico.
L’adozione di definizioni generiche al maschile ha contribuito a far aumentare l’invisibilità delle donne disabili, sicuramente dimenticate e marginalizzate molto più degli uomini che vivono la stessa condizione.
Se si analizzano i diversi documenti, le legislazioni internazionali e gli strumenti per promuovere e proteggere i diritti delle persone con disabilità, in generale si scopre che in pochi di essi è stata adottata una prospettiva di genere.
Cristina Lanteri e Marina Tilli riflettono su questi e altri punti nodali. Oltre ad offrire una ricca raccolta di materiali, propongono possibili percorsi didattici per restituire il genere negato al soggetto disabile e facilitarne l’inserimento nel gruppo come individuo a tutto tondo.
Le autrici
Cristina Lanteri, antropologa culturale
Marina Tilli, insegnante di sostegno