di Virginia Odoardi
Si sa , ma non si racconta. Donne di ieri e donne di oggi. 150 anni senza donne?
Molti storiografi hanno speso generosamente tempo per far emergere le figure risorgimentali femminili, per narrare e diffondere la nostra cooperazione attiva al processo di unificazione.
Renata Pescanti Botti, già nel 1966 raccontava le Donne del Risorgimento italiano, successivamente dagli anni ’90, una corposa letteratura storiografica ha approfondito, con angolature diverse, l’apporto femminile all’Unità.
Sebbene la storia ufficiale sia totalmente al maschile, dato rilevato dalla maggioranza dei critici, emergono figure femminili che, seppur legate a nomi maschili, come Anita Ribeiro da Silva Garibaldi, obbligano a interrogarci su quante siano state e chi fossero le eroine che sfuggono ai libri di storia.
Una ricerca in merito è stato realizzata da Donatella Massara, studiosa della storia al femminile, attivista per i diritti delle donne, impegnata da una vita a favore dell’informazione storica a tutto tondo.
In questo studio si valorizza lo spazio sociale occupato dalle molte risorgimentali, poco note all’opinione pubblica, nascoste dietro le imponenti figure maschili, oscurate da quei Mille che portarono alla formazione del nostro paese.
Sono poche le figure che hanno resistito all’oblio, Virginia Oldoini, contessa di Castiglione, è però ricordata per la spregiudicatezza, per l’abilità femminile di raggirare, le si attribuiscono doti di donna ma con la valenza negativa che Omero dava alle sirene che seducevano Ulisse.
Facile capire quindi perché la contessa sia sopravvissuta alla censura della storia maschile. Massara riporta una auto-descrizione esaustiva e rappresentativa della donna che fu e che, parzialmente, potrebbe avvalorare l’ipotesi di una figura ambigua e votata al successo personale. Virginia, infatti, scrive di sé:«Io sono io, e me ne vanto; non voglio niente dalle altre e per le altre. Io valgo molto più di loro. Riconosco che posso non sembrare buona, dato il mio carattere fiero, franco e libero, che mi fa essere talvolta cruda e dura. Così qualcuno mi detesta; ma ciò non mi importa non ci tengo a piacere a tutti».
Al di là di un’interpretazione superficiale, però la Oldoini prova la presenza attiva femminile nella storia italiana, se, infatti, le donne all’epoca fossero stare mere dame di compagnia, consigliere da focolare, una donna comunque così scaltra non avrebbe avuto una simile libertà di agire né avrebbe potuto conquistare il titolo di contessa. Molti attribuirono alla sua bellezza il merito di aver affascinato il conte e addirittura il re, ma lo studio di Donatella Massara pone in luce un aspetto molto più da stratega che da femme fatale.
Cristina Trivulzio di Belgioioso, anch’essa superstite al silenzio e presente nella memoria comune di un popolo che 150 anni dopo sembra riscoprire un attaccamento alla patria mai manifestato. È stata un esempio di forza e determinazione, ancor più della Oldoini, perché votata al bene della Patria in fieri.
Insieme a Enrichetta Di Lorenzo Pisacane e Giulia Bovio Paulucci, Cristina partecipò all’organizzazione dei soccorsi durante le giornate romane. A loro si deve la nascita dell’idea di assistenza infermieristica femminile laica, della gestione scrupolosa dei dettagli dell’organizzazione degli ospedali, del posizionamento delle ambulanze, ma soprattutto di aver animato l’operosità delle donne romane a sostegno della causa comune. «Nel momento che un Cittadino offre la vita in servizio della Patria minacciata, le Donne debbono anche esse prestarsi nella misura delle loro forze e dei loro mezzi. Oltre il dovere dell’infondere coraggio nel cuore dei Figli, dei Mariti e dei Fratelli, altra parte spetta pure alle Donne in questi difficili momenti. Non parliamo per ora della preparazione di cartucce e munizioni di ogni genere cui potranno essere più tardi invitate le Donne Romane. Ma già sin d’oggi si è pensato di comporre una Associazione di Donne allo scopo di assistere i Feriti, e di fornirli di filacce e di biancherie necessarie. Le Donne Romane accorreranno, non v’ha dubbio, con sollecitudine a questo appello fatto in nome della patria carità».
Sarebbe un’assurdità sostenere che queste donne furono solo esempi virtuosi ma isolati o eccezioni perchè provenienti dalle classi sociali dominanti, se avevano la libertà di immaginare una fase successiva di presa diretta delle armi, senza essere tacciate di fanatismo o recluse come insubordinate, evidentemente all’epoca l’apporto quotidiano delle figure femminili alla gestione delle cosa pubblica, non intesa in senso meramente istituzionale, doveva essere superiore a quella narrata dalle fonti ufficiali.
Bisogna distinguere l’apporto vero e proprio delle singole e il riconoscimento ufficiale concesso a quell’apporto. Dal 1861 a oggi la condizione del narrare non è poi così mutata, le donne italiane, come gli uomini hanno vissuto la tardiva rivoluzione industriale, le guerre mondiali e i processi di crescita economica, ma hanno partecipato dietro le quinte di un teatro ancora recitato al maschile, eco della migliore tradizione shakespeariana.
Storie di quelle donne che di certo non hanno fatto concretamente l’Italia, ma che nel tempo hanno costruito quello che oggi noi tutte raccogliamo, e se tanto ancora c’è da costruire non possiamo negare che senza di loro non avremmo oggi la possibilità di dire ciò che diciamo e di operare per poter dire di più.
C’è una storia, forse un po’ romanzata, come avviene nella memoria storica delle famiglie, che narrava sempre mia nonna: la storia di Adele Spaziani, sua nonna, discendente di un ramo dei Colonna, in un paese, Genazzano, in cui la famiglia dominò per sei secoli fino al 1816 quando passò sotto la giurisdizione dello Stato Pontificio e che ancora oggi ospita il castello Colonna.
Adele era nobile o per lo meno il suo sangue era parzialmente blu, ma si ribellò alla famiglia per sposare un contadino del paese, Andrea. Mia nonna raccontava del ripudio, della cacciata, dell’esclusione dall’eredità. Raccontava di una donna dalle ottime maniere che era passata dalla nobiltà alla terra per amore e, se l’aspetto romantico è decisamente secondario, quello che colpiva di più era il suo coraggio di perseguire la sua indipendenza e la convinzione di essere libera di scegliere a costo di perdere la condizione privilegiata.
Citare questa donna può apparire fuorviante, ma ciò che preme evidenziare è il lento trasformarsi dei ruoli e delle libertà individuali femminili. Parlare di Italia senza raccontare la forza delle donne e i loro contributi, equivarrebbe ad allinearsi alla visione predominante ed entrare in contrasto con la storia narrata dalle voci che l’hanno vissuta che decostruisce la visione predominante.
È riscontrato che le donne parteciparono attivamente al processo industriale, studi in merito ne rilevano ed evidenziano la presenza nelle fabbriche, ma solo le voci femminili sanno decifrare il perché dell’assenza delle donne operaie di fine ottocento nella memoria collettiva.
Simonetta Ortaggi Cammarosano, all’interno del volume a cura di Stefano Musso,” Tra fabbrica e società. Mondi operai nell’Italia del Novecento”, propone una ricognizione storica del rapporto tra Condizione femminile e industrializzazione tra Otto e Novecento. La studiosa ricorda che già in Boccaccio sono riscontrabili testimonianze di donne-lavoratrici, ma dall’autore trecentesco alla rivoluzione industriale, ciò che è rimasto invariato è il «divario tra l’importanze del ruolo produttivo della donna e il riconoscimento che a questo si faceva corrispondere nel campo economico come in quello dei diritti civili e politici». Era diffuso, per esempio, calcolare il salario femminile come la metà di quello maschile, pratica che fa echeggiare la prassi di alcuni paesi islamici, che tanto scandalizza l’occidente, secondo cui la testimonianza della donna vale la metà di quella maschile, a significare che per completare lo spazio sociale e giuridico di un uomo si necessitano due donne.
Andando avanti nel tempo, pensando alla Prima Guerra Mondiale, la guerra di trincea, la storia riporta volumi di dati sulla presenza italiana maschile al fronte, narra la durezza di una guerra che per la prima volta coinvolge la maggior parte delle potenze economiche del tempo. Racconta, giustamente, le morti sul campo di battaglia, ma dimentica di interrogarsi su cosa, nel frattempo, accadesse negli stati, nei territori che non erano stati occupati dai combattimenti. Pone nell’oblio l’andare avanti, sofferente e stentato sicuramente, della vita quotidiana, le attività lavorative portate avanti dalle donne rimaste a casa. L’unico ricordo istituzionale che si ha è l’incitamento dei futuri soldati richiesto alle donne, una sorta di riscrittura combattente del ruolo di angelo del focolare.
Saltando qua e là negli anni, perseguendo il fine di dar voce al silenzio, giungiamo al periodo successivo al secondo dopoguerra. Prescindendo dalle grandi città e dall’alta borghesia in cui il processo di emancipazione femminile cominciava a dare i suoi frutti, ci si chiede se l’apporto del mondo contadino al boom economico sia stato globalmente valorizzato.
Chissà perché di quel mondo spesso si ricordano solo le mondine, seppure sia noto che la maggior parte delle attività agricole fosse svolta a conduzione familiare.
Mi viene in mente un’altra storia, un’altra memoria intima, un’altra nonna, non la mia questa volta, che però mi ha regalato con qualche ora di ricordi e qualche lacrima di commozione, la possibilità di comprendere la grandiosità e la versatilità dell’essere femminile.
Le donne scendevano nei campi, dalle 4 del mattino, lavoravano in ogni condizione: malattia, gravidanza, pioggia o neve. Hanno allevato figli, sopportato la mancanza di comodità e aperto la strada alla libertà delle donne future. A loro si deve la vera emancipazione, perché se per secoli questo impegno su molti fronti è un dato assodato, quella generazione di donne ha permesso che si formassero le famose donne del ’68. In un tempo in cui uscire di casa per le adolescenti era appannaggio del volere paterno, donne come questa hanno lottato con l’astuzia positiva femminile, per rabbonire padri ancora convinti dell’idea delle figlie da tenere in casa, affinché fosse concessa alle figlie quella libertà di svago che a loro era stata negata. Hanno appoggiato il lavoro femminile, quello vero, quello retribuito, hanno spinto le giovani donne a volere di più, pur rispettando sempre il concetto di impegno.
Ed è così che si sarebbe dovuta fare l’Italia che oggi celebriamo, impegno, costanza e voglia di pro-creare un domani più ricco per tutti, perché il bello di nascere donna sta proprio nel fatto di dare qualcosa di diverso, non superiore, ma di offrire una visione che solo la differenza di genere narrata può offrire.
Se in passato ci si è dimenticati di nominare le donne nei momenti storici cruciali, d’ora sarebbe giusto porre le basi per costruire l’Italia del domani.
Per lo studio di Donatella Massara si è fatto riferimento al sito:
http://www.url.it/donnestoria/testi/trame/sommario.htm
Per Simonetta Ortaggi Cammarosano:
Stefano Musso a cura di, Tra fabbrica e società. Mondi operai nell’Italia del Novecento, Milano, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, 1999, pag. 109.
Virginia Odoardi – LLaureata in Lingue per la Comunicazione Internazionale, con una tesi in Sociologia del Territorio sui matrimoni imposti nelle comunità immigrate di seconda generazione in Italia
e Gran Bretagna. Collabora come freelance con diverse testate giornalistiche. Ha un blog in cui affronta il tema di genere a tutto tondo, anche a livello internazionale e in lingua straniera (Womenmustgoon.wordpress.com). Lo stesso blog, esclusivamente in lingua italiana, è presente tra i blog de Linkiesta.it (http://www.linkiesta.it/blogs/women-must-go). Scrive anche per dols.it. Interessata alla sociologia dei fenomeni migratori, ha approfondito lo studio di tematiche di genere e delle politiche di integrazione, frequentando il corso relativo al progetto “Ricerca azione partecipata sulle vittime della tratta degli esseri umani, dei crimini d’onore e dei matrimoni forzati in seno alle comunità immigrate africane e dell’Europa dell’Est”, finanziato dall’Unione Europea nell’ambito del programma Daphne.ureata in Lingue per la Comunicazione Internazionale, all’Università L.U.M.S. A. di Roma, con una tesi in Sociologia del Territorio sui matrimoni imposti nelle comunità immigrate di seconda generazione in Italia
e Gran Bretagna. Collabora come freelance con diverse testate giornalistiche. Interessata alla sociologia dei fenomeni migratori, ha approfondito lo studio di tematiche di genere e delle politiche di integrazione.