da Settima Stella di Maria Pia Romano
LA CLESSIDRA E IL MARE
Diceva di aver dimenticato la forma del mare
ed era una piena di parole
in cui immergere il senso denso
di una sera stralunata
in cui la vita si faceva leggere unicamente
nelle sue impressioni di rosoni barocchi
e spiragli di sorrisi.
Riusciva andare sotto la pelle con lo sguardo.
Uno sguardo aperto.
Come vela su una pagina di mare.
E’ divertente
anche per chi si adatta male alle pretese di controllo,
simulare una resa di fronte all’intelligenza di un coltello.
A volte non resta
che uno stato di veglia continua
per noi che ci annoiamo di fronte ad una vita leggibile.
E parole coricate.
E traversate del deserto.
Come Tuareg, gli uomini blu.
Il colore del mare.
Diceva di aver dimenticato la forma del mare.
Ma aveva gli occhi di conchiglia innocente
sorpresa a vagabondare per sabbie sconosciute.
Geograficamente disperso nei suoi luoghi da scoprire.
Da prima che nascesse.
Forse anche lui
era uno di quelli che possono amare solo ciò che scorre.
Era il viaggiatore che voleva dilatare la fretta.
Era la clessidra che si giocava il tempo a dadi.
Era la visita inattesa di un lago tra le pieghe delle pelle.
Ma non lo sapeva.
LA DONNA CHE APPARTENEVA ALLE CENTO PIETRE
Da quando sono nata conto le pietre. Ogni giorno. Sono cento.
Ogni pietra un morso nell’anima. Ogni pietra un delirio di pensieri. Ogni pietra un grappolo di speranze. Da appendere al soffitto e guardare di notte, quando i sogni del giorno diventano carne.
Ho scordato il mio nome. Una liquida dimenticanza settembrina.
Ho cento anni, come le pietre di questo luogo che accoglie i suoi figli decapitati dall’orgoglio saraceno.
Ho cento mani per correre incontro a chi sa ascoltare la voce di questa terra fatta di zolle e di pietre, di mare e di pietre, di ulivi e di pietre.
Ho cento preghiere da recitare al mattino per svegliare il sonno delle conchiglie.
Perché resiste alla notte il torpore strano di un mondo sonnolento che si sente vivo amoreggiando con la morte.
Superfluo elencare.
Doveroso tentare di capire.
Inutile tentare di spiegare.
Perché non esiste una spiegazione alla vergogna di un cielo sporcato. Resta la mandorla amara in gola, in cui affondare lacrime antiche. Una sete atavica. E serrature sprangate ai menzogneri dell’amore.
Qui, dove un tempo si ergeva una tomba, io piango da cento anni i morti di una terra dove l’aria è acqua di mare, anche se si veste a festa e fa scivolare leggere le parole all’ora dell’aperitivo.
Con le braccia saldate alla vita, ho visto attraversarmi fantasmi di monaci ed eserciti di cristiani. Non so dove sono nata, ma so che a questo luogo appartengo.
Scrivo preghiere che sono lettere d’amore. Le ripiego e le affido alla voce delle pietre, che sono incastonamenti di cuore
Parlano i silenzi del ventre della terra da cui nasceva la storia.
Urlano i silenzi delle macchie di sangue da cui ricomincia la follia.
Cantano i silenzi delle notti di luna in cui s’addensano le favole.
E delle favole c’è sempre bisogno.
A volte penso che gli uomini non stiano aspettando altro che un sorriso.
Conto le speranze.
Deglutisco lo scirocco.
So che la mia vita è qui.
Nella terra che non capisce le mie lettere.
Eppure conosce il mio alfabeto.
A Sud.
1 commento
Bella, toccante. Arriva dentro.