(a proposito del saggio di Luisa Muraro)
“Non si può smantellare la casa del padrone con gli attrezzi del padrone” è una frase della femminista e poeta afroamericana Audre Lorde.
Indica una strada, offre una suggestione che è anche traccia precisa per costruire una visione: non si dismette un sistema se lo si imita, adoperando i suoi strumenti, seppur sostenendo che è a fin di bene e che i nostri fini sono nobili e alternativi.
Chiaramente lo dice, conoscendo da vicino la fascinazione erotica simbolica e concreta della violenza anche Robin Morgan, altra grande pensatrice nordamericana vivente, nel suo Il demone amante, che nella prima traduzione italiana aveva per sottotitolo sessualità del terrorismo.
Morgan chiede alle donne, specie a quelle di sinistra, di interrogarsi sul fascino che esercita sul genere femminile la violenza rivoluzionaria incarnata dal condottiero che parla del futuro regno di miele imbracciando un fucile dal quale non spuntano fiori, e per il quale la (sua) violenza è giusta perchè il sistema oppressivo è da abbattere.
In questa logica il fine giustifica i mezzi, pur se identici a quelli del potere dominante.
Morgan invita anche a riflettere sul fatto che una democrazia, se nasce da un gesto di violenza, (fosse anche quello di uccidere il dittatore più odioso), porterà comunque i segni di quel sangue versato. Dal letame nascono i fior, non dal sangue.
Nel 2003 Maria Di Rienzo ed io, (che ero reduce dal drammatico G8 in qualità di portavoce del Genova Social Forum per la rete delle donne), scrivemmo il primo libro italiano che intrecciava pratica e pensiero femminista e nonviolenza: Donne disarmanti-storie e testimonianze su nonviolenza e femminismi.
Con chiarezza sostenemmo che non era vero che le donne in quanto tali erano meno violente degli uomini: dire che per natura non siamo portate alla violenza era, ed è, uno stereotipo e una trappola patriarcale.
Portammo esempi di storia antica e recente in cui le donne avevano scelto la nonviolenza come strumento politico perché nella relazione conflittuale (ma non nella violenza che vede dall’altra parte un/una nemica) c’è l’unica strada per uscire dalla logica del mors tua – vita mea.
Raccontammo le strade di dialogo e di conflitto praticate dalle Donne in nero, (dal cui lavoro tra l’altro originò il bel testo Vita tua-vita mea), da quelle di Not in my name, dalle attiviste indiane seguaci di Vandana Shiva, dalle suore incarcerate e poi assolte in Inghilterra contro la costruzione dei caccia Hawk 955, della voce non incarnata di Lisistrata che fonda la diplomazia contro la guerra maschile e patriarcale.
Nel frattempo giravo l’Italia ospite di piccoli e grandi gruppi di donne, ma anche misti, che in tutto il paese creavano spazi di elaborazione del lutto per le violenze del G8, che ancora oggi resta una ferita aperta non solo nella democrazia, ma anche dentro ai movimenti per alcune derive militariste interne.
Da allora ho cercato sempre di ricordare che prima del luglio 2001 c’è stato un mese prima PuntoG- Genova, genere, globalizzazione, uno straordinario evento di due giorni e mezzo nei quale, (attraverso in particolare le parole di Lidia Campagnano), si era anticipato con lucidità profetica non solo l’arrivo della crisi, ma il realizzarsi di una mutazione antropologica e politica nella quale stiamo ora intrappolate: l’avvento del mercato come potenza pressochè assoluta regolatrice delle nostre vite.
Quell’appuntamento costituì anche però un momento di forte conflitto con il resto dei movimenti misti, perché in più occasioni noi femministe stigmatizzammo l’uso di linguaggio, pratiche e simbolico bellico nel seno stesso di parti di movimento altermondialista, nei confronti dei quali ci dichiarammo totalmente e definitivamente in disaccordo e dopo il G8 Maschile Plurale e Uomini in cammino scrissero un documento di forte disagio circa le pratiche di piazza muscolari.
<<continua>>