Marianna Faraci, catanese del ’78. Siciliana al 100%, ma milanese d’adozione. Perchè Milano l’ ha scelta e lei ha scelto Milano. Vive da single con i suoi interessi: la chitarra, i cd, i libri, la sua inseparabile macchina fotografica.
Perchè sei qui a Milano?
Dopo la maturità scientifica ed aver seguito Lettere e Filosofia a Catania, sono stata presa dall’amore per la Letteratura moderna e contemporanea. Questa mi ha portato sin sulla Ripa di Porta Ticinese, a casa di AldaMerini. Su di lei e sulla sua poetica scrissi la mia tesi di Laurea: un’epifania, un incontro magico, un grande indimenticabile dono, sugellato da un’inedito dettatomi dalla grande poetessa dei Navigli che chiude una lunga intervista, durata tre giorni e di cui conservo gelosamente i nastri audio.
Infine, il master post laurea in Comunicazione Sociale, Politica e Istituzionale. Ed è così che sono diventata un “comunicatore pubblico”. La comunicazione è per me essenziale come il respiro: non potrei farne a meno, è la mia radice stessa.
Ecco perchè tutto quello che ha a che fare con essa, in tutte le forme e modalità più disparate, mi affascina e mi incuriosisce.
Che lavori hai fatto?
Ho sempre lavorato come consulente di comunicazione, soprattutto nella e per la Pubblica Amministrazione. Credo nella Res Publica, nella capacità che hanno le decisioni di incidere nella vita quotidiana di tutti e, se sapute socializzare bene, di facilitarla. Sono stata educata con rigore e responsabilità da due integerrimi servitori dello Stato: mio padre insegnante, mia madre assistente amministrativa; ecco perchè non riesco a pensare se non “al plurale” e mai “al singolare”.
In questo momento mi occupo di relazioni esterne, istituzionali, media e organizzazione di eventi per l’Assessorato allo Sviluppo Economico, Formazione e Lavoro della Provincia di Milano. E’ entusiasmante. La difficoltà del preciso momento storico che stiamo vivendo è tale che considero una grande fortuna poter lavorare amando quello che faccio. Ogni mattina, quando entro in ufficio, vedo le persone in fila, ammutolite e in attesa di iscriversi alle liste di collocamento. Il bisogno è crescente, la crisi impera, c’è da rimboccarsi le maniche e fare tanto.
Come sei arrivata alla fotografia?
La mia passione per la fotografia, in realtà, parte dalla storia dell’arte e dalla pittura, in particolare. Da ragazzina ho iniziato prima con la tecnica ad olio, poi ho apprezzato la leggerezza degli acquerelli e infine ho smesso di colpo, preferendo la scrittura. Ho avuto la fortuna, grazie a mio padre, di crescere in un ambiente ricco di stimoli artistici. La mia casa e il suo laboratorio al piano terra sono stati e sono popolati da immagini, stampe, quadri, sculture di ogni genere: legno, marmo, ferro, creta.
Ho, quindi, una visione delle cose e della vita dilatata attraverso l’arte, che poi si condensa maggiormente nelle parole.
Il trait d’union con la fotografia è stato il cinema. Il cine teatro, un po’ alla Tornatore, del mio paese nel cuore della Sicilia era il luogo privilegiato dei sogni e delle scene indimenticabili dei grandi film: dalle storie fantastiche, alle pellicole americane, ai grandi registi italiani. Le prime foto, le polaroid a seguire, i primi scatti con un bel senso estetico li devo a mio zio Calogero, che sviluppava in camera oscura. Anche questo è un ricordo raro, perchè oggi solo gli anziani fotografi sanno che significa chiudersi in camera oscura e vedere nascere un’immagine impressa su di una pellicola.
L’interesse per la fotografia in generale, però, cresce in me con l’avvento del digitale. Dopo aver accantonato la vecchia macchina fotografica con la pellicola, quasi dieci anni fa il regalo di un fidanzato (era stato espressamente richiesto) mi apre un nuovo mondo, in parallelo con l’acquisto del primo pc portatile.
Il racconto iconografico delle esperienze scout, i viaggi, i numerosi interessi per le culture e le persone diverse da me, eventi irripetibili, come i funerali di Papa Giovanni Paolo II…un archivio minuzioso ed ordinato, che un furto, una sera di fine settembre in un hotel a Roma, cancella di botto, irrimediabilmente. Una sensazione di vuoto e di privazione disgustosa, che non augurerei a nessuno. Copia di back-up di poco o niente. Quasi tutto perso. Formattato da chissà chi, con un click. Ho pianto per giorni. Appena ho smesso il rifiuto è stato totale.
Le mie mani si sono bloccate, ma la mia mente ha continuato a fissare momenti, oggetti e volti come fossero scatti. Durante il master la svolta: partecipo ad un concorso d’ateneo e vengo scelta, assieme ad altri, per essere esposta prima in Università e poi in una galleria in Via Solferino. Milano e le numerose mostre di fotografia di alto livello che si sono succedute nel corso degli ultimi anni ci hanno messo, a ruota, lo zampino!
Dopo una pausa durata anni, la possibilità di avere più tempo per me, avendo cambiato lavoro, mi hanno spronata a riprendere in mano la macchina fotografica: stavolta facendo sul serio. O reflex, o reflex. L’ho comprata, finalmente.
“Col mio lavoro mi servirà pure”, mi sono detta tra me e me. Quindi, il primo approccio è stato più utilitaristico che passionale, direi.
E poi ci sono cascata: mi sono innamorata!
Ci parli del tuo percorso di formazione fotografico?
A settembre dello scorso anno, ho scelto di cominciare un percorso di formazione più maturo e strutturato. Ma non cercavo il consueto corso di tecnica; piuttosto qualcosa che si avvicinasse di più al racconto per immagini, che mi insegnasse cos’è e come si costruisce un fotoreportage, che mi fornisse un metodo di lavoro.
E così è avvenuto l’incontro con Polifemo, questo gruppo di fotografi professionisti che lavora e che ha sede stabile alla Fabbrica del Vapore, in Via Procaccini.
Guidata da Leonardo Brogioni, in collaborazione con la nota rivista italiana di comunicazione sociale “Terre di Mezzo“, ho potuto spaziare dalla storia del giornalismo fotografico, alla preparazione ed organizzazione del reportage, dalla scelta dell’angolo visuale della storia al diritto all’immagine dei soggetti fotografati. E per concludere, un vero e proprio reportage finale. Un lavoro completo di chiusura dell’esperienza, che è culminato con una mostra dei progetti realizzati dagli allievi, proprio alla Fabbrica del Vapore. La scelta e la documentazione sull’argomento è stata preventivamente concordata con la redazione di Terre di Mezzo e sviluppata a mano a mano nelle sue varie parti. Un percorso tutt’altro che semplice, anzi. Impegno, fatica, errori, correzioni in corso d’opera, tempo per conoscere, scattare e una dose massiccia di buona volontà.
La scelta della mia foto-inchiesta è ricaduta su di un centro che conoscevo già per motivi di lavoro e nel quale mi ero materialmente imbattuta nel corso di un’esercitazione: l’Associazione Nocetum.
Dove si trova l’Associazione Nocetum? A Milano?
E’ appena a trenta minuti dal Duomo, percorrendo un bel pezzo di Via San Dionigi, la lunga arteria che da Piazzale Corvetto si snoda nella periferia sud est di Milano. È il confine naturale tra città e verde urbano, nel Parco Agricolo Sud, la cosiddetta Valle dei Monaci, che porta sino all’Abbazia di Chiaravalle.
Questo luogo ha visto scorrere la Storia con la “s” maiuscola, quella dei vescovi della città e degli imperatori, e la storia con la “s” minuscola: ieri, quella degli uomini semplici, dei contadini, degli artigiani, dei monaci cistercensi; oggi, dei cittadini di periferia, degli immigrati, dei rom, di chi fugge dalla frenesia metropolitana per ritrovare una dimensione più umana.
Da vent’anni Suor Ancilla (Premio Isimbardi 2008 e Ambrogino d’oro 2011) vive qui, all’ombra del noce, e con lei Gloria, che coordina i numerosi volontari impegnati e la comunità, fatta anche da ragazze madri in difficoltà con i loro bambini, che crescono protetti e amati.
Nel vocabolario di Nocetum non esistono parole come “diverso” o “straniero”, lasciano il posto ad “accoglienza”, “rispetto”, “integrazione”, “intercultura” e “sostenibilità”. Qui si coltivano non solo prodotti biologici e tracciabili lungo la filiera agroalimentare locale seguendo il ritmo delle stagioni, si seminano cittadinanza e opportunità per tutti. La cura e la salvaguardia della natura e degli animali sono un’unica cosa con la valorizzazione delle persone, della loro individualità e cultura d’origine. Come è successo a Rajae e sua figlia Hiba (marocchine), Gabi (rom romena), Miriam (ruandese), Bisrat e la piccola Aida (etiopi) e a tutti gli altri che, ogni giorno, entrano nel cuore di questa straordinaria normalità.
Le giornate iniziano presto e finiscono sempre tardi, riempite dalle innumerevoli attività, dai giochi dei bimbi, dalle voci dei tanti volontari, dal telefono che squilla, dalle pentole che ribollono, dagli amici che arrivano all’improvviso e sono certi di trovare la porta e le braccia di “Mamma Ancilla” (come sono soliti chiamarla tutti) e di Gloria sempre aperte.
Forse è per tutte queste ragioni che, nel 2009, al Palazzo di vetro delle Nazioni Unite di New York, Nocetum è stato presentato come modello per la costruzione della città interetnica del futuro.
Con le mie foto ho cercato di mettere in evidenza queste caratteristiche, contemporaneamente presenti e percepibili a chi arriva a Nocetum: l’amore per il creato e quello per le persone.
Qui ho trovato una vera oasi di pace e fraternità, un luogo di periferia dal cuore grande: nessuno viene giudicato per quello in cui difetta, ma valorizzato per quello che sa fare e che può offrire agli altri.
E’ stato come arrivare a casa. Una sensazione bella e perdurante. E sono diventata anch’io una volontaria. Vado una volta a settimana e quando serve, come per gli aperitivi multietnici, cui invito tutti a partecipare: la tavola ha sempre unito le persone con un sorriso. Abbiamo tanti progetti in cantiere…tante cose da realizzare.
La macchina fotografica mi segue ormai dappertutto e, grazie a lei, sto imparando a vedere cose che prima semplicemente osservavo con superficialità. E’ diventata anch’essa un mezzo e un modo per raccontare la realtà, per continuare la mia voglia di comunicare.
In fondo, è come diceva Margaret Bourke-White, la prima donna corrispondente di guerra: la fotografia è quella “capacità di guardare in profondità, dove altri tirerebbero dritto”.