di Marianna Faraci
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Un suo aforisma recita: «La fama si conquista con la solitudine» (Aforismi e magie). Quanto è costata la celebrità ad Alda Merini?
Tutto quello che aveva. Un patrimonio. Perché?
Perché, cito testualmente: «La poesia/è la peggiore disgrazia/che può capitare/ad un uomo» .
È come l’innamoramento, si perde la testa e poi si dice che non è vero. Quando mi interrogo dico: “Io poeta?”, “Mai!” e agli altri: “Ma certo!”, faccio prima. Un tizio una volta mi ha chiesto: “Ma lei in manicomio non ha mai detto che era un poeta, perché?” “Non ero mica matta!” (ride forte). Stavo così bene…
La sua autoironia è sagace, è come una pillola, un antidoto…
Dice? Peccato che però non dormo a furia di regalare antidoti… a un certo punto non c’è nessuno che mi dia un calmante.
Non lo so, ma… tutti gli uomini mi son corsi dietro e non ho mai capito il perché (riflette un attimo)… profumo di donna? O profumo di poesia?
Entrambi.
Ero molto profumata, allora. (Si alza e va nell’altra stanza per regalarmi l’ultima plaquette di Pulcinoelefante, Una poesia. Opera di Spiro. Poi torna e riprende) Ho ancora molti adoratori, sa? Maschi? Che sposerebbero la Merini? Mai! Mai!
Preferisce la stima delle donne?
Pensi che non posso sopportarle… no, non è che odio le donne, per carità. Le ho viste all’opera nei manicomi, erano talmente tremende! Lì ho conosciuto veramente le donne: perfide, gelose, invidiose…
Come gli uomini, del resto.
L’ho sentito dire, però quando ho visto picchiare e ammazzare gli uomini in manicomio, spappolargli il fegato, martoriargli i testicoli… il ricordo è atroce. Il male per il male non l’avrei mai immaginato. Non ho mai compreso il senso della tortura: si può uccidere un uomo in un impeto di gelosia, ma la sevizia raffinata è il colmo… che poi non è neanche perseguibile per legge. La chiesa la giustifica dicendo che esiste una giustizia divina eterna. Io preferisco una pugnalata diretta che questo continuo stillicidio. In dieci anni è stato così e ne ho ricavato un grande risentimento verso la vita, e anche verso le donne. False, invidiose, anti-uomo proprio, perché alle volte non potevano averlo.
Eppure la sua poesia è stata definita ‘femminista’ dai critici…
Perché come donna difendo il mio diritto alla vita, il diritto al mio potere di poetessa, di donna. Ma non potrei odiare un uomo solo perché non sta al mio desiderio. Ne soffrirei, ma non lo piegherei mai, ho troppa stima degli altri… ma neanche una donna. Sa, in manicomio sono stata felice perché non sentivo il bisogno di decifrarmi. Io ero innocente, non capivo. Non ho mai odiato nessuno.
Il vero manicomio…
…è l’animo…
…è stato il ritorno alla vita?
Forse. L’ignoranza, cioè il fatto che gli altri non avrebbero mai capito. Quello che ho visto là dentro io non lo dimentico più. I matti erano molto simpatici. Non ho mai visto un loro gesto sconsiderato, un atto di libidine, una parola volgare, mai, mai, mai. E pensi che alcuni giravano nudi, insomma non avevano il comune senso del pudore. Erano povera gente, dimenticati, disperati… ma buoni, eternamente buoni. Ciò mi sorprendeva. Il manicomio era una struttura che raccoglieva chi non poteva pagarsi un medico. Però quanto ho imparato! Loro sono stati i veri angeli della mia vita. Erano di una purezza tale che se lei si fosse mostrata nuda le avrebbero chiesto se aveva fame. L’avrebbero guardata come se non possedesse un corpo, come se fosse trasparente. Sapevano vedere l’anima. Sono stati i miei angeli (Improvvisamente cambia tono, ma senza alcun accenno di risentimento).
Vede, mio marito mi ha messa in manicomio e non son riuscita a capire… però il marito è un uomo offeso. Ma all’interno del manicomio c’erano le madri, rinchiuse dai figli. Per punirli li avrei messi in galera. Credo che esse siano morte di un tale dolore! Peggio dei cani. Le povere vecchie con le carni consumate dall’urina, dalle feci… per andarsene in campagna ! A mio marito ho largamente perdonato quando ho visto le madri, perché lui forse era giovane, sarà stato in preda ai fumi della gelosia, ma un figlio… Non li hanno lasciati lì per lavorare, ma per divertirsi con le mogli. Concubinati, matrimoni che sarebbe meglio venissero disfatti.
(Si alza a fatica e mi fa cenno con l’indice della mano) Si ricordi una cosa: la poesia è felicità, non so chi si è messo in mente che sia dolore. Può diventare dolore quando lei vuole fargliela diventare. Forse il dolore è uno stimolo.
È un luogo comune che i più grandi poeti abbiano scritto le loro opere migliori dopo una grande sofferenza.
Perché non provano gli editori ad andare per un periodo in manicomio, un periodaccio? Ci vadano loro. Ma non tutti ragionano così, eh! Alcuni mi han salvata, altri deficienti son convinti che tagliare un piede faccia bene. Sì, c’è questa cultura del dolore.
(Si siede accanto a me) All’inizio sono stata piuttosto attaccata all’ambiente del manicomio, che era molto circoscritto. L’ho considerato un po’ come un monastero, come un luogo in cui fare meditazione. Sono stata bene lì. Non ho avuto bisogno di grandi viaggi, li facevo con la mente. Io posso stare qui anni e scrivere tutti i romanzi che vuole, basta che mi dia un tema. Però mi occorre qualche stimolo amoroso, questo sì! Un corteggiamento, una parola che gratifichi un’esistenza giudicata inutile.
Mi racconta dell’ultimo libro, La carne degli angeli ?
Angeli e demoni l’ho scritto per completare la quadrilogia. E tutto a un tratto il mio prete scompare, s’impicca. Per me è stato un grande dolore, è stato un grosso trauma che non ho superato, perché ha messo in crisi la mia fede. Che cosa lo ha spaventato? Non sapremo mai il gioco della mente, magari viveva un momento topico. Avevo anche scritto un capitolo su Desirè , il cui caso è stato affossato, povera piccola. Ma Mosca Mondadori lo ha saltato a pie’ pari. Forse l’ha tagliata fuori perché era una testimone di Geova. Testimone o no, era una figlia; il prete era un figlio. Due morti sconvolgenti. Il libro è stato partorito male, me lo ha detto anche Don Antonio che lavora qui, nelle carceri: “Non ha quel respiro profondo e felice degli altri tre ”. In effetti non ero felice. (S’interrompe, mi guarda e porta le mani piegate ai fianchi) Ma dobbiamo proprio parlare di poesia?
Lei di cosa vuol parlare?
Di niente. (riprende subito) Vede, questo disordine, questo pane non è poesia. Ma se guardiamo al perché qui c’è il pane, lì c’è il vino, al lavoro che c’è dietro, al piacere di berlo insieme… La solitudine. Credo che la mia poesia sia scaturita dalla solitudine, dal non volere avere commercio con gli altri. Gli altri m’infastidiscono. Rilke dice: «Solitudine mia beata e santa». Il pensiero, la poesia, e anche l’indolenza. Il poeta è un grande indolente e alle volte non vuole ascoltare nessuno. Va avanti perché è un ispirato. Ma non saprà mai cosa scrivere domani, scrive alla giornata. Quasimodo mi diceva: «Tu sei una grande avventuriera dell’anima». Ciò che capita, capita. Le occasioni che ha il poeta sono preziose. È un po’ come poggiare la prima pietra. I più non capiscono la profondità del poeta, lo prendono come un attacco fisiologico nei loro confronti. Prendiamo, ad esempio, la famosa scrittrice Emily Dickinson: non ha voluto più vedere nessuno, perché l’amore è una cosa segretissima, nessuno deve sapere.
Somiglia alla Dickinson?
Sì. Ma era brutta, mi pare. Grazie del complimento!
Intendevo dal punto di vista poetico.
Forse, perché come lei sono gelosissima dei miei sentimenti. Manganelli diceva una cosa: «Voglio star solo, ma che lo sappiano tutti!». (ride) Come per me: «Non devono sapere che amo il Campedelli, ma deve essere una cosa universale!». I poeti son fatti così, sono degli originali.
(Sfila dal dito il grosso anello di strass variopinti e lo poggia sul tavolo. Sospira. La voce si fa più rauca) Vede, noi non siamo padroni del nostro destino. Del resto, se non fosse così, non morirebbe nessuno. Sapremmo il momento. Ha mai pensato che se lei sapesse il giorno della sua morte s’impiccherebbe subito? Invece la natura ce lo nasconde. La natura è provvida, è matrigna e non lo è, è madre. Verrà il giorno in cui partiremo, ce ne andremo. Oramai io credo di essere arrivata al commiato. L’unica cosa che vorrei è morire felice. Consapevole di aver dato o fatto tutto il bene possibile, consapevole di tutto quello che nella mia pochezza ho voluto o ho potuto realizzare, figli compresi. Il manicomio non è stato altro che la premessa di questo grande addio alle ceneri della vita, una preparazione di morte. Questa è stata l’iniziazione del manicomio: un congedo temporaneo, decennale di quello che nella mia esistenza mi piaceva fare, come la passione, i figli. È stata una pre-morte: vedere che a un certo punto tutto finiva, calava il sipario. L’inferno dell’uomo è nei continui contisti della volontà. Comunemente si chiama vecchiaia.
(Alza lo sguardo, cristallino e radioso, e sorride nel silenzio) …La prossima volta che viene a Milano passi, l’aspetto. E mi porti uno dei suoi ‘pupi’, magari una fatina, ma una fata silenziosa! Sa, sono molto siciliana come carattere, conservatrice negli affetti, nelle tradizioni, nell’amore per la casa. Voi donne siciliane siete delle grandi Penelopi: aspettate, aspettate il rendiconto di non so che fatalità. Noi l’abbiamo già toccata, siamo senza speranza: donne pragmatiche e poco solari. Invece nel Meridione si sogna ancora, lì ho trovato un’altra dimensione. Ho amato molto il Sud, terra della luce e delle insanabili contraddizioni, ne ho un bel ricordo.
Scriva. Le detto un Pensiero per il Meridione…