di Rita Cugola
“Io sono mia!”. “Il corpo è mio e lo gestisco io!”. “Tremate, tremate: le streghe son tornate”.
Erano questi gli slogan che scandivano il ritmo delle marce femministe nel corso degli anni Settanta. Tante donne unite per la conquista di obiettivi importanti e fino ad allora inconcepibili, come il riconoscimento della legittima libertà di aborto (legalizzato) e divorzio.
Manifestando il proprio dissenso da un sistema politico stigmatizzante sul piano dei loro diritti, discutendo e confrontandosi nelle piazze, nei circoli culturali o nei luoghi di lavoro, le donne di allora stavano gettando le basi per cambiamenti epocali di cui avrebbero beneficiato le generazioni successive. O almeno così credevano, convinte com’erano che solo la parità tra i sessi avrebbe davvero garantito un alto livello di democrazia statale. Qualsiasi differenza (di genere, ma anche di razza, religione, cultura) se non adeguatamente affrontata e risolta, avrebbe infatti compromesso irrimediabilmente la libertà individuale di ogni cittadino.
Le loro lotte erano da ritenere universalmente valide e condivise. I solidi presupposti di una rivolta pacifica volta alla destabilizzazione di un potere tradizionalmente maschilista non dovevano cadere nel vuoto del silenzio. Anche se una tecnologia ancora a uno stadio embrionale non aiutava sicuramente a procedere più rapidamente sul cammino dell’evoluzione sociale (a quel tempo, ad esempio, ben poco trapelava delle tristi realtà imperanti in luoghi remoti o semisconosciuti come i paesi arabi, per cui l’ondata femminista tendeva ad abbracciare prevalentemente il mondo occidentale).
Tuttavia, quelle donne reclamavano una parità tra i sessi che non poteva essere ulteriormente ignorata o relegata a un ruolo secondario. Volevano essere considerate eticamente “uguali” agli uomini, pur nel pieno rispetto della loro diversità fisica.
Qualcosa però deve essere andato storto, in seguito. I messaggi carichi di entusiasmo e speranza di quelle “pasionarie” con gonne lunghe e zoccoli; le ideologie di cui si rendevano portavoce affinchè tutte – nessuna esclusa – potesse liberarsi dal vincolo della sopraffazione non hanno ottenuto l’esito auspicato.
E oggi stiamo forse subendo le conseguenze degli errori interpretativi commessi dalle generazioni successive.
Uguaglianza non significa negazione della femminilità. Non significa appropriarsi di atteggiamenti dettati da una mentalità che non ci corrisponde. Non significa rinunciare alla nostra dignità umana.
Uguaglianza significa riconoscimento dei valori specifici di una persona, al di là del sesso di appartenenza. Invece stiamo assistendo con sempre maggiore frequenza a discriminazioni crescenti nel welfare, sul lavoro e nella vita sociale. Le donne valgono ancora meno degli uomini. Sono considerate meno affidabili, più volubili, meno capaci. Adatte soltanto a esibire la loro bellezza (quando c’è) o a dimostrare la propria disponibilità a soddisfare i desideri del maschio dominante.
I mass media ci rinviamo quotidianamente immagini di avvenenti ragazze seminude, pronte a risvegliare torbide fantasie e a trasmettere ambigui messaggi di superficialità offensiva per qualunque cervello “pensante”. Per non parlare del preoccupante aumento del numero di donne violentate o uccise da animali celati sotto sembianze maschili.
Curiosamente, invece, da quegli angoli fino a non molti anni fa silenziosi del pianeta, sta accadendo un fenomeno nuovo. Le donne arabe si stanno attivando strenuamente per cambiare il loro status di millenaria subordinazione e per questo auspicano vivamente l’avvento di un governo democratico nei loro paesi oppressi dalla tirannia dittatoriale o da regimi autoritaristici estremamente rigidi in materia di parità tra gli individui.
Non vedono di buon occhio il permissivismo occidentale ritenuto fonte di tutti i mali sociali: “L’ostentazione ossessiva del corpo e la nudità così tollerate in occidente non sono per noi indici di emancipazione, bensì di schiavitù costante”, mi ha detto recentemente un’amica araba. “Una donna deve saper affilare nel giusto modo le armi di cui dispone e non sprecare le proprie potenzialità assecondando istinti che non le appartengono”.
Per essere uguali agli uomini, quindi, dobbiamo innanzitutto riconoscere di essere diverse. La diversità è il miglior strumento di lotta, la base di qualsiasi percorso. Altrimenti rischieremo di essere rifiutate in quanto non solo caricature ibride di quegli stessi stereotipi che vogliamo combattere, ma anche (e soprattutto) per l’atavica incapacità di apprezzare la nostra vera grandezza. Non possiamo pretendere di vincere se per prime dubitiamo delle possibilità di vittoria. A volte le donne sono le peggiori nemiche di se stesse e questo è un tabù da sfatare drasticamente.
Le femministe arabe si pongono ora traguardi che in occidente sembravano già raggiunti e che dunque sono stati colpevolmente accantonati; la storia contemporanea ci costringe a fare i conti con il nostro abbaglio collettivo.
E’ più che mai necessario rispolverare la vecchia consapevolezza condita di sano ottimismo che quarant’anni fa scosse l’altra metà del cielo, senza confidare troppo nella potenza della sola parola per riuscire a operare al di sopra delle righe.
Rita Cugola, milanese del ’59.
Giornalista. Attualmente collabora con il quotidiano “Il Fatto” e ha lavorato per il mensile “SpHera” (ora chiuso), occupandosi, rispettivamente, di mondo islamico (immigrazione, problematiche politiche e sociali) e di egittologia, ermetismo, filosofia. Il suo blog http://rita-madwords.blogspot.it/