di Rita Cugola
Nel 1995 gli accordi di Dayton fecero definitivamente tacere le armi nella ex Jugoslavia. A quasi diciassette anni di distanza il mondo sembra aver volutamente dimenticato le conseguenze di quel conflitto scatenato su basi etnico-religiose. Da allora, infatti, nessuno ha più osato riaprire il libro dei ricordi e sfogliare le pagine dedicate alle atrocità commesse dai serbi sui bosniaci.
Donne, vecchi, bambini indifesi trucidati brutalmente per soddisfare un’antica sete di sangue e vendetta. Fu un genocidio di proporzioni davvero enormi, quello che insanguinò la Bosnia-Erzegovina e che forse per la prima volta lasciò intravvedere un elemento del tutto inedito: l’odio per il genere femminile nel suo complesso. L’accanimento ossessivo dei serbi contro le donne di ogni ceto ed età, – alimentato da una forma di odio crudele imbevuto di sadismo – pose in risalto il fatto che fu proprio la diversità fisica a determinare il bersaglio da colpire.
Migliaia di stupri andarono ad aggiungersi agli orrori che ogni guerra porta inevitabilmente con sé. Se però la memoria dell’umanità preferì in seguito seppellirne gli echi nefasti (estremo tentativo di esorcizzare il senso di colpa collettivo, generato da una complicità costruita attorno al silenzio omertoso), le donne bosniache continuano tuttora a convivere con i fantasmi generati dalle atrocità subite. Senza trovare pace.
“Ricordo ogni cosa, e vorrei non ricordarla”, racconta una di loro al suo rientro nella natìa Zvornik, nella Republika Srpska sorta dopo Dayton. “Ricordo le torture. Mi picchiavano fino a quando non riuscivo più a stare in piedi. Venivano a prendermi e mi lasciavano sola in una stanza con un uomo. Sono stata in prigione per tre mesi, senza avere la minima idea di dove fossero i miei figli. Passavo le notti a immaginare cosa gli fosse successo. Adesso, anche se prendo delle pillole prima di addormentarmi, faccio sempre quei sogni…”
“Tutto cominciò quando i serbi entrarono nel paese”, è la testimonianza di Sevla Avdic, originaria di Ciorakovo, nei pressi della roccaforte serba di Prijedor. “Nessuno aveva fatto resistenza ma loro sono venuti ad arrestare i miei tre fratelli e molti altri uomini musulmani…. ho visto il nostro prete con le mani legate spinto dentro la moschea con altri dieci uomini… ho visto i cetnici mettere della legna e appiccare il fuoco. Tutto e’ bruciato fra le grida dei presenti”.
Sevla continua a parlare e ripercorre anche il calvario di una sorella paraplegica: “Loro sono arrivati alla sera con dei cappucci in testa. Ma alcuni li ho riconosciuti dagli occhi, erano i miei vicini serbi: ‘Dacci i soldi, dacci l’ oro altrimenti ti ammazziamo’, gridavano. Io volevo dare quel poco che c’ era ma loro erano rabbiosi” Si interrompe un attimo, prigioniera di un passato sempre vivo nella sua mente: “Mia sorella piangeva”, prosegue poi. “Cercava di scappare con la sedia a rotelle e allora un cetnico le ha puntato contro il fucile e ha sparato. E rimasta ferma con gli occhi spalancati e una grande macchia rossa sulla camicetta. L’ ho seppellita nell’ orto perche’ ormai era la sola cosa che potevo fare per lei. Adesso non ho piu’ niente al mondo, non riesco neanche a capire chi sono e cosa faccio qui e continuo a chiedermi come puo’ essere successo tutto questo, sento che la mia mente se ne va e sto perdendo la ragione”.
Molte donne rimasero incinte in seguito allo stupro ma non fecero in tempo ad ad abortire poiché furono internate nei campi di concentramento. Alcune di loro partorirono i figli indesiderati nel reparto maternità dell’ospedale Koshevo, a Sarajevo, sotto l’ala protettrice della dottoressa Zuhra Dizdarovic, che ricorda perfettamente le tragedie disegnate su quei visi smunti, pallidi e sofferti.
Le vittime degli stupri non avevano età: tra loro c’erano adulte, ragazze, bambine.“Ce n’era anche una di dieci anni”, dice. “Una vecchietta, violentata, morì, in molte tentarono il suicidio”. Il suo racconto dell’orrore non si ferma: “ Bimbe di età compresa tra i dieci e i quindici anno vennero condotte a Foca dai serbi: lì c’era un bordello per i miliziani” .
La maggior parte delle donne abbandonò i neonati in ospedale. Molte vennero allontanate dalle rispettive famiglie e furono costrette a vagabondare in cerca di aiuto. Nessuna disponeva di mezzi idonei alla sopravvivenza in un contesto ancora contaminato dall’inferno. Tutte però dovettero fare i conti con i pesanti disagi – soprattutto di ordine psicologico – da cui non si sarebbero mai liberate ma con i quali avrebbero dovuto cominciare a convivere, per quanto possibile.
Le continue pressioni da parte di organizzazioni bosniache indusse il governo di Sarajevo all’avvio, nel 2010 del “Programma nazionale per le donne vittime di violenza sessuale nel conflitto e successivamente al conflitto”.
Finora, l’iniziativa non ha avuto seguito. Le donne continuano a combattere la loro solitaria battaglia contro lo stress post-traumatico, l’ansia, la depressione, l’ipertensione, il diabete, le afflizioni veneree contratte a causa delle violenze sessuali. Poche possono contare su un’assistenza sanitaria; la maggioranza non ha la possibilità di pagarsi cure adeguate.
Per le donne bosniache, tuttavia , l’aspetto peggiore della vicenda è offerto dalla consapevolezza dell‘impunità di cui godono i loro carnefici. Giorni e giorni trascorsi nell’incertezza, nello smarrimento per un futuro carico di angoscia.
In realtà, decine di migliaia di crimini di violenza sessuale sono stati ampiamente documentati, ma soltanto poco meno di 40 hanno sono stati esaminati dai giudici del Tribunale penale della ex- Jugoslavia o dalle corti bosniache.
I soprusi perpetrati contro le donne in Bosnia-Erzegovina non appartengono al passato e non sono da ritenere episodi circoscritti a un territorio di guerra. Essi fanno parte del bagaglio esperienziale di ciascuna di noi, poiché hanno leso la dignità femminile dell’intera umanità. Non è possibile continuare a far finta di nulla, anche se probabilmente la rimozione sarebbe una soluzione meno dolorosa del ricordo.