Una donna che compie imprese immani è sempre una donna, prima di tutto.
Il viaggio di lavoro, in apparenza, potrebbe apparire un non viaggio: si arriva nel solito aeroporto, più o meno uguale ad ogni altro, taxi, hotel, ristoranti di lusso standardizzato, sala riunioni, colloqui in basic english sottocodice manageriale.
Eppure, se si tengono gli occhi aperti, il viaggio di lavoro mostra più di qualunque viaggio turistico, più o meno organizzato. Si entra nei luoghi dove davvero si lavora, si entra in contatto con persone interessate a raggiungere uno scopo, e non solo a blandire o a ingannare l’ignaro turista.
Restano in ogni caso valide le buone regole che ogni viaggiatore dovrebbe rispettare: curiosità; disponibilità a stupirsi; attenzione ai segnali deboli, ai dettagli; consapevolezza della propria ignoranza; capacità di accettare la diversità, senza per questo rinunciare alla propria identità.
La metropoli che forse è nel nostro futuro
Arrivo a Shanghai all’alba, e sulla lunga via dall’aeroporto mentre emerge la città non riconosco nulla, mi chiedo davvero dove sono. Sembra di entrare in un romanzo di Phlip Dick. Sterminata pianura di grattacieli, sopraelevate che si intrecciano una sull’altra, sulle quali mi aspetto di vedere un robot-taxi su cuscinetto d’aria. Nelle strade più strette i grattacieli sono così fitti che si fatica a vedere il sole da terra. Torri che si moltiplicano innumerevoli (nice places for middle class, apprenderò più tardi). Ogni appartamento una vita, ogni ufficio un lavoro, e come ognuno di noi, ognuno si crede il centro del mondo, e ciò che ci riguarda individualmente ha per noi importanza vitale. Ma guardando tutto insieme tutto sembra insignificante. Dove può essere la rilevanza individuale? E così continuo a pensare quando cominciano le riunioni con i miei interlocutori cinesi, con le loro guerricciole di potere che ho visto mille volte a casa nostra, ma su questo sfondo sembrano ancora più ridicole.
Questa città sembra uno specchio ingrandente, un’iperbole, un’estremizzazione del nostro mondo e della nostra vita. Più tardi, gli stessi pensieri camminando per la via centrale, i grattacieli uno più roboante dell’altro, paradiso degli architetti (ma non degli urbanisti) che possono fare ciò che vogliono, purché ogni edificio sia più arrogante, aggressivo, urlante, decorato dell’altro. I negozi del lusso (di più: i grattacieli pieni di negozi del lusso), sfrenata esibizione di oggetti che hanno i prezzi nostrani rispetto a un costo della vita enormemente inferiore, borsette e scarpette equivalenti a uno stipendio annuo, esposte come se fossero lo scopo della vita. Come da noi in Montenapo, dove i negozi ti dicono “se non puoi comperare qua sei una nullità e le commesse che magari abitano a Quarto Oggiaro ti guardano sprezzanti come vestali del tempio. Uguale, ma tutto moltiplicato. Un mostruoso convegno di tutti i calzolai, sarti, gioiellieri d’Italia, Francia, Spagna, USA e Giappone. Di più non si potrebbe. Non mi sento nemmeno all’estero, men che meno in un luogo ‘esotico’.
E questa orgia del consumo di lusso ha un’altra faccia che ne conferma l’importanza: il mercato dei falsi. Me ne parlano prima della partenza. In aereo Air China proietta un filmino diffidandoci dal comperare fakes illegali, tanto ci beccano poi in dogana. Chiedo in albergo, aspettandomi qualche bancarella precaria nei bassifondi. Mi danno tranquillamente l’indirizzo: Nanjing road n°…, la via dei negozi di lusso. Una torre di più di dieci piani. Ogni piano quattro file di negozietti, ognuno poco più di un piccolo locale che espone prodotti pessimi. Ma subito arrivano venditori ‘clandestini’ urlanti Gucciprada e Rolex. E sul fondo del negozietto si apre un’anta dello scaffale e, dietro, un bugigattolo pieno di falsi. Lo scopo più probabile è trattenere l’acquirente finché trova qualcosa da comperare. E se non trova, si prende l’ascensore, si scende nei sotterranei, si apre con la chiave il bagno dei disabili (smantellato) ed ecco il magazzino: falsi di prima qualità, di seconda o di terza. Prezzi da trattare a sangue, comunque alti per i locali. Alla faccia dell’illegalità perseguita. D’altra parte si sa che certi grandi marchi sono soci in questo mercato.
Eppure questo specchio deformante mi porta a una sensazione di libertà. E’ così ingigantita l’insensatezza di tutto, la percezione di insignificanza, che non ci si sente più parte del gioco. Senso di libertà: perché, per chi, per cosa, sbattersi così tanto continuamente, avere così tante ansie? Per affermare la nostra individualità, invece di cercare di essere felici? 17 milioni di individualità solo in questa città. Senso di libertà dalla nevrosi.
Globalizzazione e diversità
Il giorno dopo la riunione si svolge con le stesse identiche modalità nostre, solo un po’ più di sorrisi data l’eccezionalità dell’incontro. Le mie colleghe cinesi esaminano accuratamente i miei vestiti, e dopo la riunione si informano sulla mia borsa e sui prodotti di skin care che uso (per una donna cinese la cura della pelle è quattro volte più importante che da noi, in termini misurati dal mercato dei cosmetici: vengono subito in mente i romanzi cinesi, dove la descrizione della bellezza di una donna riguarda innanzitutto la pelle del suo viso). Come essere a casa.
Anche nei giorni successivi, durante gli incontri per le mie analisi sul mercato locale, ho la conferma che le donne di un certo ceto, di una certa età, su certi temi di fashion & beauty dicono le stesse cose in tutti i paesi dove ho lavorato, per quanto incredibile possa sembrare: Italia, Spagna, Francia, Grecia, Germania, Russia, Australia, Cina.
I segnali di diversità toccano un altro piano. Succede, per esempio, che cerco di entrare su un sito italiano, www.bloom.it, ed è censurato.
Succede di andare in giro e accorgermi che su dieci bambini che incontro otto sono maschi, niente altro mi dà una sensazione più terribile. Ciò che colpisce è l’evidenza di ciò che non c’è: ecco sotto i miei occhi i milioni di donne mancanti, di cui ha tanto parlato Amartya Sen.
Succede che parlando con un professore di storia che ho occasione di incontrare si parla di Mao, e lui mi spiega che esiste un libretto rosso che tutti leggevano, io gli dico che l’ho letto e gli chiedo dettagli su Chen Po Ta e la compagna Chiang Ching, la potente ultima moglie di Mao e capo della ‘banda dei quattro’, oggi cancellata dalla storia ufficiale, la cui biografia autorizzata non ho mai potuto discutere con nessuno, perché non ho trovato un altro lettore. Mi guarda sbalordito, discute il fatto con il suo vicino cinese. Passi per Lin Piao, ma come faccio a conoscere questi? Evidentemente quando da noi c’era il 68 con le sue code maoiste lui non ne sapeva niente, ed evidentemente ne sa poco anche ora. E come potrebbe sapere, se non può accedere liberamente a Internet e ha solo libri controllati a cui ricorrere? Si stupisce anche del mio lavoro: ma come, le donne italiane non stanno a a casa a curare la famiglia?
Nemmeno molte altre persone che incontro sanno cos’è l’Italia, e se viene identificata é per via della moda, per via di Gucciprada. Visti da qui, circa 50 milioni di individui scompaiono nell’insignificanza.
Succede che un paio di riunioni di lavoro nel sud devono essere spostate per via del tifone, ma la riunione finale si farà come programmato: sabato pomeriggio, working hours, mi tranquillizzano, devono recuperare in anticipo la settimana di vacanze nazionali, sono un paese che deve svilupparsi, non possono perdere troppi giorni di lavoro. Ferie pagate: due settimane all’anno.
Così a Pechino ho tempo per girare nella città. Ma qui la sensazione è peggiore. Una città enorme che sembra finta, tutta ripulita, piantumata, ordinata, sorvegliata. Di qua sono passate le olimpiadi. Rifatte le facciate delle poche superstiti vecchie case nel centro (solo le facciate, per i visitatori, non per chi ci abita). Raddoppiate le strade del centro. Spostate le fabbriche. Cosparse le piazze di monumentini di fiori e cespugli tosati con ogni forma. Spazzine che raccolgono incessantemente il minimo pezzetto di carta caduto in strada. Sterilizzate, con divise uguali e berrettini in testa ai venditori, anche le bancarelle di cibo pronto del mercato notturno, con i loro spiedini di scorpioni, vermi, coleotteri, lucertole, cavallucci e stelle marini (il cane, mi informano, è stato abolito dai menù). E piazza Tien An men, la grande, solenne, silenziosa piazza con gli aquiloni che avevo visto ventitre anni fa, è ora divisa in due pezzi da una specie di superstrada di città, i taxi non si possono fermare vicino alla piazza transennata, i pedoni vi accedono solo da sottopassaggi presidiati dalla polizia e dopo aver passato le borse nelle macchine a raggi x. Per trovarsi di fronte enormi monumentini floreali, kitsch e infantilizzanti, alle olimpiadi. Mi viene in mente Gombrowitz: tutti i regimi hanno questo tratto comune, sono infantilizzanti.
Come si vestono, non è marginale
Decido di visitare la casa-museo di Soong Ching Ling, che è come una visione della storia della Cina moderna attraverso la vita di una donna. Conosciuta anche come Madame o Doctor Sun Yatsen (dal nome del marito, primo presidente della Repubblica Cinese e fondatore del Kuomintang), e per la sua professione di medico, Soong Ching Ling è una delle più importanti figure politiche cinesi del secolo scorso. Prima militante nel Comitato Centrale del Kuomintang, poi con i comunisti nella guerra civile. Prima donna capo di stato nella cina post-imperiale: nominata vicepresidente della repubblica Popolare Cinese nel ’68, e poi, poco prima della morte Presidente Onorario. Nel 1939, fondò il China Welfare Institute Children’s Palace, che svolse un immenso lavoro per la salute e l’educazione dei bambini e per la pace. Fondò il mensile China Today. Premio Stalin (poi Lenin) per la pace. Può bastare come promemoria, o per dare un’idea di quanto rilevante sia stata la sua vita e il suo lavoro?
Tutto è documentato nelle vetrinette esposte nella casa, che conserva ancora i suoi mobili. Leggo, guardo le foto, e a un certo punto trovo nella vetrinetta anche un vestito. Bello, tra l’altro: seta bianca ricamata, foggia tradizionale cinese. Il cartellino spiega che si tratta del vestito indossato da Soon Ching-ling nella sua visita a Mosca per l’anniversario di… Continuo, e due vetrine più in là un altro vestito, indossato dalla ormai compagna in un’altra occasione. Bello anche questo, niente a che fare con le mortificanti divise maoiste. E ancora in un’altra vetrina, vestito ricamato per lei dai bambini di… Bellissimo.
La sequenza continua. E alla fine di questo excursus della vita di una donna straordinaria, di foto con le tappe del suo lavoro, del suo ruolo sociale e politico, abbiamo avuto anche un bell’excursus sul suo guardaroba. Sbalorditivo. Dunque anche qui niente di diverso, una donna che compie imprese immani è sempre una donna, prima di tutto, e come i documenti delle sue imprese conta vedere come erano i suoi vestiti.
Non è bastata la rivoluzione Maoista dell’altra metà del cielo, non sono bastati decenni di dittatura che continua formalmente a esibire il faccione del Presidente e la sua ideologia, non bastano miliardi di donne che qui devono lavorare, produrre, fare politica come gli uomini. Come si vestono, non è marginale.
Posso tornare a casa, senza troppe sensazioni di discontinuità.