di Katia Salvaderi
Strategie di sopravvivenza psicologica in caso di tumore al seno. Come i medici ”aiutano” le malate.
Katia Salvaderi ci racconta la sua esperienza di tumore al seno, di come la solitudine psicologica sia spesso tenuta poco in considerazione dagli ambienti medici e di come i media contribuiscano a suscitare paura intorno a questa malattia. E’ interessata ad avere anche la tua testimonianza, per proporre una inchiesta e promuovere un convegno sul tema. Per dare voce alle donne che da questa esperienza ci sono passate e, grazie al loro contributo, sollecitare un modo diverso di affrontare il tema da parte di medici e comunicatori. Se hai qualcosa da raccontare (esperienze tue o di persone a te vicine) scrivile a k.salvaderi@gmail.com . Insieme, potremo aiutare altre persone a vincere la paura.
Apro Internet e mi imbatto in un sito che riporta nuove notizie sul tumore al seno:
“I ricercatori del Cancer Institute alla New York University Langone Medical Center hanno identificato un gene, l’eIF4G1, che si esprime troppo nella maggior parte dei casi di cancro infiammatorio al seno (IBC). Questo gene consente alle cellule di formare raggruppamenti molto mobili, responsabili delle rapide metastasi sviluppate spesso da questo tumore. L’IBC può essere molto pericoloso, spesso colpisce le donne giovani e può essere mortale dai 18 ai 24 mesi”.
E’ esattamente dopo essere incappata in questo genere di informazioni che nel mio animo scatta l’allarme rosso. Perché io ce l’ho avuto un tumore al seno . O forse, come un oncologo un giorno amabilmente mi fece notare, ce l’ho ancora, “perché, vede signora, in letteratura medica il tumore al seno non è più considerato una malattia mortale” (e questa secondo lui sarebbe stata la buona notizia) “bensì una malattia cronica” (e questa, nonostante le buone intenzioni del dottore, non suona esattamente come una buona notizia, quando il tumore ce l’hai).
Di cancro al seno, dicono le statistiche, non si muore più. Bene! Si continua però a far morire di paura, promuovendo attorno al tema un clima di terrore. Perché se le statistiche dicono che dopo cinque anni l’80% delle donne operate di tumore al seno sono ancora vive, non ti dicono se lo sono al sesto anno – come se cinque anni di vita fossero una prospettiva felice (sic!) – tantomeno se tu non fai parte, per caso, dell’altro 20%. Inoltre, non è quasi mai dato capire se quella statistica sta parlando di un tumore del tipo che hai avuto tu: perché ne esistono centinaia e centinaia, senza contare che di ogni tumore si valutano infiniti parametri e valori, che rendono ogni caso praticamente unico. Se c’è una cosa che ho capito di questa malattia, dopo quattro anni che ci vivo insieme, è che è vero tutto e il contrario di tutto, perché nessuno ci ha ancora capito niente.
E se dunque non esistono verità al positivo, non ne esistono neppure al negativo: non è assolutamente detto, insomma, che di tumore si debba morire. E’ questa la prima strategia di sopravvivenza psicologica che, negli anni, ho dovuto sviluppare, per non sprofondare nella spirale del terrore e magari morirci per davvero, di paura.
Un’esperienza che mi sento di condividere, casomai potesse tornare utile a qualcuna .
La mia avventura inizia nel 2005. Faccio un controllo di rito, perché anche mia madre ha avuto un tumore al seno (la familiarità… – altro babau con cui convivere per il resto della vita) e mi vengono diagnosticate delle micro-calcificazioni. Mi si prescrive una biopsia tramite metodo Mamotome, perché queste calcificazioni sono talmente piccole che una normale biopsia sarebbe impossibile. Si tratta di un esame molto doloroso ed invasivo, da cui sono uscita con un enorme ematoma alla mammella che è durato due mesi, per cui, prima di sottoporvi a questa tortura, valutate bene, rivolgetevi a bravi radiologi che da una semplice osservazione di mammografie successive siano in grado di capire se una micro-calcificazione sta iniziando a fare le bizze o no (la mia radiologa lo aveva già capito) e, nel caso, fatevele togliere direttamente: ormai la prassi prevede che possano essere analizzate durante l’intervento stesso e che, in caso di positività, vi si possa sottoporre immediatamente, a seno aperto, a ulteriori indagini (noduli sentinella, eccetera) e financo a radioterapia. Evitando uno strazio inutile, consapevoli che altri e ben più pesanti strazi vi attendono.
Dopo dieci giorni, mi chiamano dall’ospedale per la consegna degli esiti. Vengo ricevuta tra una porta e l’altra di una sala di radio-diagnostica da una dottoressa giovanissima, mai vista prima, che, senza tanti giri di parole, mi comunica: “Lei ha un carcinoma”. Sbianco: “E ora cosa devo fare?”. “Si deve operare”. “Da chi vado ora, a parlare dell’operazione?”. “Ah, io questo non lo so, si rivolga agli uffici per la prenotazione della visita”.
<continua>