di Marta Ajò
“I treni della felicità”, 1945-1952
In questo 25 aprile 2012, è importante ricordare anche le piccole storie che ci hanno fatto e ci fanno grandi.
Perché, come ha detto Luciana Viviani, Croce al Merito di guerra, “Questo è un Paese che ogni tanto ha bisogno di ricordarsi che ha fatto delle cose bellissime. Perché noi siamo un po’ contro noi stessi: ci diciamo tutto quello che facciamo di male, ma ci diciamo troppo poco quello che facciamo di buono.”
Nel bagaglio di questa memoria, è venuta a mancare una parte importante di storia di forte tradizione popolare del nostro Paese, che è densa di episodi meno noti, sconosciuti o dimenticati ma che ci onorano; iniziative incredibili e dimenticate come quella dei “Treni della felicità”.
Partiti settant’anni fa, carichi di una generazione di bambini (più di 70mila) provenienti dal Sud più svantaggiato. Bambini che tra il 1945 e il 1952 presero in quegli anni il primo treno della loro vita lasciando alle spalle la povertà e le macerie del dopoguerra, per essere ospitati da famiglie di lavoratori emiliani, romagnoli, toscani e liguri spinti dalla generosità e dalla solidarietà; per i quali una bocca in più da sfamare e aggiungere un posto a tavola, “dove se uno mangia, possono magiare in due”, era un dovere da esercitare o, forse, anche la naturale conseguenza dell’esistere in quel periodo. Certamente una delle pagine migliori della ricostruzione dell’Italia dopo l’occupazione nazifascista e la guerra.
Una vicenda che prese l’avvio nell’inverno del ’45, quando l’Italia, messa in ginocchio, stremata e affamata, fu colta da una straordinaria voglia di rinascita e di un nuovo futuro. Nell’emergenza del dopo guerra, uno dei problemi più tragici da affrontare fu quello del recupero e della tutela dell’infanzia; dei bambini abbandonati e degli orfani.
Fu, qualcuno dice “inevitabilmente”, merito di una donna, Teresa Noce, una dirigente comunista, ad intuire che la drammatica situazione di bisogno dei bambini non poteva essere risolta, sia pure temporaneamente, che attraverso un gesto di solidarietà. Essa, insieme a ciò che rimaneva dei gruppi di difesa della donna, poi confluiti nell’ allora nascente Unione Donne Italiane, UDI, ottennero di ospitarli per alcuni mesi nella generosa Reggio Emilia.
L’iniziativa travalicò i confini e in poco tempo diventò un movimento di solidarietà nazionale, un’azione di assistenza e di umanità che riuscì a supplire in parte all’assenza e alla debolezza iniziale delle istituzioni.
Le donne furono le protagoniste indiscusse dell’enorme macchina organizzativa di cui necessitava quest’azione. Attraverso l’Unione Donne Italiane, l’associazione femminile della Sinistra italiana, i comitati locali e l’appoggio della Croce Rossa, le donne riuscirono, tra mille difficoltà, a portare quei bambini in un contesto di dignità e riscatto. Nel clima di fervore per la ricostruzione del Paese, migliaia di famiglie di lavoratori del Centro-Nord aprirono dunque le loro case ai fanciulli provenienti dalle zone più colpite del Meridione.
Di questi bambini, accolti in un mondo lontano anni luce da quello lasciato a casa, non restano che poche testimonianze e i ricordi. Quelli di Americo, Dante, Erminia e di altri di quelle migliaia che viaggiarono su quei treni, in un viaggio che nessuno di loro ha dimenticato e che ha cambiato la loro vita per sempre.
Raccontati dalle testimonianze di alcuni di loro in un bellissimo documentario del regista Alessandro Piva, intitolato “Pasta nera” (la pasta dei poveri, fatta di chicchi di grano bruciato) che è stato presentato alla sessantottesima mostra del cinema di Venezia di quest’anno.
“Andate in Alta Italia? Attenti, che quando arrivate i comunisti vi trasformano in sapone!” Allora spaventata dissi: “Io non ci vado più.” Mio fratello e mia sorella invece, che erano più piccolini, dicevano: “Andiamo, andiamo col treno! Non l’abbiamo mai preso il treno”, Luigina, 13 anni, Lazio
“Mi sembrava di essere in una favola, dentro quel treno. Vedevo tutti queste luci nel mare che rispecchiavano, e io non potevo riuscire a capire che cos’erano, perché non avevo mai sentito che c’era il mare” Erminia, 7 anni, Puglia
“Quando sono tornato giù al paese, non trovandomi a mio agio non mangiavo. Non so se era per il dispiacere… So che non mi andava di mangiare. Non volevo rimanere lì, era un ambiente che non mi piaceva. Avevo visto il sistema di vita qui, mi piaceva la gente… Ti dico: quassù era un mondo a colori, laggiù era un mondo in bianco e nero” Americo, 8 anni, Puglia
E’ giusto ricordare, tramandare, insegnare ciò che rende onore non solo alla storia ma alle nostre stesse coscienze, perché l’appartenenza e la cittadinanza non siano solo un timbro su un passaporto. Giusto rammentare una pagina di storia di straordinario valore umano e politico come questa, che andrebbe fatta conoscere, specie alle giovani generazioni, come patrimonio da non disperdere e che sta a significare un forte segnale di civiltà che allora rafforzò il rapporto tra Nord e Sud d’Italia, verso l’unità nazionale.
La stessa unità che oggi viene messa in discussione da alcuni politici e soprattutto un insegnamento rispetto al valore dell’accoglienza che in Italia riguarda purtroppo migliaia di disperati, anche bambini, che sbarcano nel nostro Paese.