di Caterina Della Torre
Ne parla Daniele Mocchi, dell’Istituto Studi e Ricerche di Massa-Carrara.
L’associazionismo culturale rappresenta, nel nostro Paese, uno dei pochi strumenti rimasti di ascensore sociale, anche, e soprattutto, femminili.
Questo pensa Daniele Mocchi 36 anni, ligure trapiantato a Carrara. Sposato da 6 anni con Cristiana con la quale condivide il progetto di costruire una famiglia meticcia e multiculturale anche sapendo che sarà un percorso pieno di insidie sia nell’iter dell’adozione internazionale, sia e soprattutto perché l’Italia sconta purtroppo ancora un arretramento culturale (inspiegabile, visto anche la sua recente storia di Paese di emigranti) verso colui che ha origini diverse.
Come mai l’idea di un’adozione internazionale?
Perchè siamo convinti che debba innanzitutto partire dai giovani (se così possiamo ancora autodefinirci!), questo nuovo modo di pensare, di accogliere chi viene da un Paese lontano e diverso dal nostro. Nessun popolo, d’altro canto, può arrogarsi il diritto di una superiorità qualitativa, perché ogni civiltà si costituisce su un terreno interculturale, sul dialogo, sulla contaminazione con altri saperi, linguaggi, culture, religioni.
La nostra è una scelta che vuole essere anche un po’ una risposta ad una sorta di omologazione culturale che fa sì che tutto ciò che non rientra nell’ambito di questa sfera sia “fumo negli occhi,” mentre noi crediamo nella valorizzazione delle diversità, nell’educazione delle differenze.
Che studi hai fatto?
Mi sono laureato in Economia e Commercio all’Università di Pisa. Ho sempre avuto una passione verso le materie economiche, anche se mai avrei pensato di ritrovarmi a fare attività di ricerca in questo ambito: è stato un sentimento che è maturato nel tempo.
Ed ora di cosa ti occupi ora, quindi?
Mi occupo appunto di ricerca economica e sociale. Da una decina d’anni lavoro presso un centro studi della Camera di Commercio di Massa-Carrara che si chiama Istituto di Studi e Ricerche. E’ una realtà un po’ anomala nel panorama nazionale, visto che è un’azienda speciale messa in piedi dall’Ente camerale per coprire il settore degli studi, attraverso però un percorso di condivisione e un concorso finanziario di tutti i principali Enti locali della provincia.
Il mio lavoro consiste nel monitorare la situazione economica e sociale di Massa-Carrara, stendendo periodicamente rapporti e analisi territoriali. Negli ultimi anni, inoltre, ho avuto modo di collaborare anche con altre realtà diverse da quella in cui risiedo.
Da circa un anno, poi, sono entrato a far parte di RENA (Rete per l’Eccellenza nazionale), un’Associazione indipendente, formata da giovani che operano nei diversi settori pubblici e privati, in Italia e all’estero, che sono accomunati da un obiettivo ambizioso: costruire, valorizzare e aggregare l’eccellenza nel e del nostro Paese, in ogni sua forma, stimolando la formulazione di idee e proposte politiche nuove.
La scelta di RENA è stata conseguente al fatto che ho maturato l’idea che l’associazionismo culturale rappresenta, nel nostro Paese, uno dei pochi strumenti rimasti di ascensore sociale, per l’emersione e la crescita di individualità e di giovani talenti, anche, e soprattutto, femminili.
Debbo dire, a questo proposito, che il tema delle pari opportunità, del merito, dell’individuazione di nuove politiche tese a migliorare la mobilità sociale dei giovani e delle donne alberga stabilmente all’interno delle discussioni di RENA, tanto che ormai è diventato uno dei principali cavalli di battaglia dell’Associazione.
Le pari opportunità…che ne pensi? E’ una cosa solo da donne?
Assolutamente no, anzi, è il caso che entri definitivamente nella testa e nell’agenda dei maschi. RENA, per esempio, nel suo ambito lo sta facendo: in ogni iniziativa pubblica che fa su questi e altri temi, ha sempre dietro un contributo ed un sostegno maschile.
Non credi che le P.O. coinvolgano anche il genere maschile, per un riequilibrio della società?
Per quanto mi riguarda è un tema, questo delle pari opportunità, che mi sta particolarmente a cuore, perché fintanto che il nostro Paese non riuscirà a colmare questo gap di genere, fintanto che non sarà in grado di garantire pari accessibilità alle risorse e ai lavori, non potrà considerarsi un Paese equo e civile.
Abbiamo in Europa, ed anche nell’area del Mediterraneo, esempi virtuosi da questo punto di vista: dovremo iniziare a prenderne spunto, a partire da una migliore riequilibrio nell’ambito delle rappresentanze politiche e nei centri di potere. Per questo, ho accolto con molto interesse la recente proposta legislativa di fissare una soglia minima di partecipazione di donne nei cda delle società quotate, perché, pur essendo contrario in generale alle quota rosa, il fissare inizialmente paletti resta, a mio modo di vedere, l’unica strada percorribile per dare avvio al cambiamento, anche dal punto di vista culturale.
Non è più ammissibile che l’Italia, sul fronte del lavoro per esempio, abbia il tasso di occupazione femminile più basso di tutti i Paesi dell’UE a 27 (compresi quindi quelli dell’Europa dell’Est), migliore soltanto di quello di Malta! La parità di genere fa bene sia per un più armonico equilibrio sociale, sia perché contribuisce ad una maggiore solidarietà tra le generazioni.
Pensi che l’attivazione di vere P.O possano aiutarci ad uscire dalla crisi, come si dice da parte degli economisti?
Sì, sono assolutamente d’accordo con chi sostiene questa tesi.
Ci sono tantissime analisi in merito, mi limito a citarne una, quella della Banca d’Italia, che dimostra che se l’occupazione femminile raggiungesse lo stesso livello di quella maschile, il Pil del nostro Paese aumenterebbe sensibilmente (del +17,5%), perché per ogni 100 donne in ingresso nel mercato del lavoro, si verrebbero a creare 15 posti aggiuntivi nel settore dei servizi (dall’assistenza agli anziani e ai bambini, fino alle attività domestiche vere e proprie) prima non retribuiti.
In più, molti studi internazionali ci dicono che imprese con un numero significativo di donne nel senior management sono quelle capaci di produrre le migliori performance aziendali, così come un adeguato equilibrio di genere all’interno dei gruppi di lavoro produce influenze positive sull’innovazione.
Insomma, dobbiamo metterci in testa che il vero “effetto moltiplicatore della ricchezza e della capacità innovativa ce l’abbiamo in casa! La donna non può essere più considerata come qualcosa che “delizia l’ambiente, la donna è competitività.”
Si tratta quindi di fornire alle donne le opportunità e gli strumenti utili per esprimere le loro potenzialità. Non possiamo attendere oltre. Questa crisi deve rappresentare il momento di rottura delle troppe inefficienze nei meccanismi di allocazione del talento che continuano a persistere nel nostro Paese, e che raggiungono la loro massima espressività nei confronti delle donne.
È davvero paradossale che un Paese, come l’Italia, che si definisce democratico e civile, ammetta ancora questa sorta di marginalizzazione nei confronti delle donne che lavorano (vedi livelli retributivi e difficoltà a raggiungere posizioni di vertice), quando sono proprio le donne stesse a registrare il miglior rendimento scolastico, ormai da molti anni a questa parte.
Aggiungo, che è assolutamente necessario intervenire prontamente, anche per evitare che sia proprio il mondo femminile a pagare maggiormente lo scotto della crisi, essendo quello meno tutelato dall’attuale (e obsoleto) sistema degli ammortizzatori sociali e dovendo subire, rispetto agli uomini, situazioni lavorative più precarie, che, come noto, sono le prime a saltare in momenti di difficoltà.
Ma non è soltanto per un aspetto meramente economico che dobbiamo attivarci per una parità di genere. La diversa declinazione del ruolo della donna nella società ha anche, per esempio, delle implicazioni, non secondarie, sulla capacità di autorigenerazione di un Paese: oggi, a differenza di un tempo, esiste infatti una correlazione positiva tra occupazione femminile e tasso di natalità. Se non vogliamo che l’Italia continui ad essere l’esempio negativo tra i Paesi OCSE per propensione a mettere al mondo figli dobbiamo quindi favorire una maggiore occupabilità femminile (attraverso anche strumenti flessibili come il part-time e politiche di assistenza alla famiglia e alla prima infanzia) e andare verso una parità retributiva, facendo leva anche su detassazioni fiscali per le donne che lavorano.
Che ne pensi di Pari o dispare? Credi ci sarà un’efficace trasversalità, o finirà per essere uno strumento politico?
Pur non essendo presente all’interno del Comitato Pari o Dispare ne ho seguito un po’ i lavori, attraverso gli amici e le amiche di RENA. Credo che potrà essere uno strumento importante di battaglia sociale, laddove riuscirà a coniugare l’aspetto tecnico con quello di proposta politica, ma soprattutto laddove non rimarrà segregato all’interno del mondo femminile, ma coinvolgerà anche uomini, proprio in funzione di quanto ho detto sopra.
La tematica della parità di genere ha necessità di essere condivisa da tutti, perché indirettamente tocca anche aspetti della vita sociale di noi maschi.
Alla fine, che ne pensi delle donne italiane? Hanno vere pari opportunità, o molte di loro in realtà non le vogliono?
La mia esperienza mi porta a dire che le giovani donne italiane la parità la vorrebbero e molte di loro lottano quotidianamente per raggiungerla, il più delle volte lontano dalla grancassa di risonanza della tv e dei mass media. E’ proprio su questo punto che, a mio modesto parere, occorrerebbe intervenire: nella società moderna l’immagine è fondamentale, e purtroppo quella nei confronti della donna, che emerge dai piccoli schermi, non è, come sappiamo, la più positiva e la migliore imitabile.
Vorrei aggiungere però un’altra cosa. Talvolta, nel mondo del lavoro, chi fa pressioni di ordine culturale e sociale sono le donne stesse: non sono rari i casi di donne che non risparmiano critiche verso persone dello stesso sesso che nutrono l’ambizione di costruirsi, prima di tutto, una carriera professionale solida e soddisfacente, e, soltanto successivamente, una famiglia. È forse il caso di superare anche questo retaggio culturale un po’ vetusto.
La regione Toscana è molto attiva. Ci racconti cosa sta facendo per le donne?
La Toscana, in effetti, è una delle regioni più attive e sensibili alla tematica delle pari opportunità.
Recentemente, ad aprile dello scorso anno, ha approvato la legge per la cittadinanza di genere, salita anche agli onori della cronaca nazionale, perché l’unica in Italia che si pone l’obiettivo di rimuovere gli ostacoli verso la parità, in ogni sua forma, attraverso anche la costituzione di un Albo delle competenze e dei talenti femminili, da cui si potrà attingere per effettuare nomine di donne in posti chiave, altrimenti escluse per le logiche che conosciamo.
Inoltre, sempre lo scorso anno, è stato adottato un protocollo di intesa tra la Regione e le 10 Province per attivare finanziamenti a sostegno di nuovi progetti per la conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro. Tale protocollo dispone di uno stanziamento regionale di 200 mila euro a favore di ciascuna Provincia, la quale dovrà promuovere in sede locale accordi territoriali di genere, creando sinergie fra enti locali, mondo imprenditoriale e rappresentanze sindacali.
Tra gli assi di intervento definiti dal protocollo, quelli che ho trovato più interessanti e innovativi riguardano il tema della ripartizione (più equa) delle responsabilità familiari, tramite anche azioni di formazione nelle scuole – un aspetto che, come è noto, nella cultura mediterranea fa fatica ad attecchire -, la sperimentazione di formule innovative di organizzazione del lavoro nella P.A. e nelle imprese private tesa a conciliare i tempi di vita con quelli di lavoro, nonché l’incremento del ricorso ai congedi parentali da parte degli uomini.
La legge sulla cittadinanza di genere e questo protocollo rappresentano, secondo me, due “buone politiche” da prendere ad esempio per tutte le iniziative a favore del mondo femminile