Condannate a due anni di lavori forzati per “vandalismo ispirato da odio religioso”.
Questa è la motivazione della sentenza emanata il 17 agosto dal giudice del tribunale di Mosca, Marina Syrova, al termine di tre lunghissime ore di lettura, il tempo occorso per elencare nei dettagli le testimonianze in merito ai danni morali subiti dalla parte lesa.
Per Nadezhda Tolokonnikova, Marina Alyokhina e Yekaterina Samutsevich – componenti della formazione punk-rock femminista e politicamente impegnata Pussy Riot – si sono così spalancate definitivamente le porte del carcere, dove già hanno trascorso cinque mesi.
Il gruppo era infatti finito in manette nel marzo scorso, in seguito a un’esibizione non autorizzata condotta nella cattedrale moscovita di Cristo Salvatore. In quell’occasione (a sole due settimane dalle elezioni al Cremlino che pare Vladimir Putin si fosse largamente assicurato ricorrendo ai soliti brogli) il trio aveva intonato un inno punk alla Vergine affinché liberasse la Russia dal suo presidente:
“Madre di Dio, Vergine, caccia via Putin! caccia Putin, caccia Putin!
Sottana nera, spalline dorate. Tutti i parrocchiani strisciano inchinandosi.
il fantasma della libertà è nel cielo.
Gli omosessuali vengono mandati in Siberia in catene. Il capo del Kgb è il più santo dei santi. Manda chi protesta in prigione. Per non addolorare il santo dei santi le donne devono partorire e amare.
Spazzatura, spazzatura, spazzatura del Signore.
Spazzatura, spazzatura, spazzatura del Signore.
Madre di Dio, Vergine, diventa femminista. Diventa femminista, diventa femminista. Inni in chiesa per leader marci, una crociata di nere limousine. Il prete viene oggi nella tua scuola. Vai in classe, portagli il denaro.
Il Patriarca crede in Putin. Quel cane dovrebbe piuttosto credere in Dio.
La cintura della Vergine Maria non impedisce le manifestazioni. La Vergine Maria è con noi manifestanti.
Madre di Dio, Vergine, caccia via Putin. Caccia via Putin! caccia via Putin!”
L’iniziativa non è stata affatto gradita dagli ortodossi. Nel corso di una liturgia nella Chiesa della Deposta Veste il patriarca Kirill è giunto a parlarne in termine di “un’irrisione proveniente dal demonio”.
Per lo stesso giudice Sytova si è trattato di “azioni sacrileghe, blasfeme”, gesti, insomma che “violano le regole della chiesa”. “Le ragazze”, ha aggiunto, “possono essere corrette soltanto con la detenzione”.
La severità eccessiva del verdetto lascia supporre che le istituzioni abbiano inteso compiacere il clero ortodosso – da sempre filogovernativo (il patriarca Kirill – sempre lui! – aveva definito Putin “un miracolo di Dio”) – ma non siano state in grado di valutare adeguatamente l’eco mediatica che il caso avrebbe suscitato nel mondo. Fonti ben informate affermano che “le stesse condannate sono rimaste sorprese da quanto il governo abbia voluto caricare il loro caso di componenti simboliche, trasformando le Pussy Riot da estemporaneo gruppo anarcoide in simbolo di libertà”.
Del resto, la maggior parte dei russi sembra schierato al fianco degli accusatori: Levada, il centro considerato più neutrale, ha rilevato che una percentuale pari al 51 per cento dei russi è contraria ai metodi del trio.
Il problema, tuttavia, non va individuato nelle Pussy Riot in sé, quanto invece nel largo seguito che sta ottenendo in Russia il movimento di protesta antigovernativo. La conclusione del processo al gruppo è stata seguita da duemila manifestanti radunati davanti al palazzo di giustizia di Mosca , ai quali in segno di solidarietà si è aggiunta una cinquantina di cortei disseminati da New York a Sydney, al grido comune di “Free Pussy Riot!”
“Senza mettere in dubbio la legittimità della decisione della giustizia”, ha puntualizzato l’Alto consiglio della chiesa ortodossa nel frettoloso comunicato diffuso poco prima della sentenza penale, “chiediamo alle autorità dello stato di dar prova di clemenza verso le condannate, nella speranza che rinuncino a ripetere questo genere di sacrilegio”. Con un anticipo di alcuni giorni lo stesso Putin aveva espresso fiducia in una pena “non troppo severa” per le tre ragazze.
Amnesty International considera l’accaduto un grave colpo alla libertà di espressione in Russia. Maria Alekhina, Ekaterina Samutsevich e Nadezhda Tolokonnikova, arrestate per aver liberamente manifestato la loro opinione, sarebbero quindi da intendere prigioniere di coscienza e andrebbero rilasciate subito senza condizioni. “In risposta all’ondata di proteste che hanno accompagnato le recenti elezioni parlamentari e presidenziali” ha sostenuto John Dalhuisen, direttore del Programma e Asia centrale di Amnesty International, “le autorità russe hanno introdotto varie misure che limitano la libertà d’espressione e di riunione.
Il processo alle Pussy Riot è un ulteriore tentativo del Cremlino di scoraggiare e delegittimare il dissenso. Un tentativo che è destinato al fallimento”.
Fuori dall’aula del tribunale lo scacchista (nonché strenuo e noto oppositore di Putin) Gary Kasparov è stato bloccato dalla polizia mentre Aleksej Navalny – il blogger attorno al quale si è concentrata l’ondata di protesta – cercava di spiegare ai cronisti di tutto il mondo che “il verdetto è stato scritto da Vladimir Putin”.
Grande indignazione per la condanna delle Pussy Riot anche dai maggiori esponenti della politica internazionale: il sentimento di “preoccupazione” per una sentenza definita “sproporzionata” espresso dal dipartimento di Stato americano è stato ampiamente condiviso sia dal titolare della diplomazia europea, Catherine Ashton, sia dalla cancelliera tedesca, Angela Merkel.
Ora c’è grande attesa per la manifestazione di protesta che avrà luogo il 15 settembre nella capitale russa. Sarà interessante constatare quali effetti l’ormai universalmente definito “caso Pussy Riot” sarà nel frattempo riuscito a scatenare nelle coscienze globalizzate della società civile.
Lottare per la libertà di espressione è un dovere che non conosce confini. Ovunque il silenzio tenda ad assumere i contorni nebulosi di un imperativo categorico imposto dai vertici gerarchici di un potere vigente, là deve allora entrare in funzione l’istinto di autoconservazione e autoaffermazione che contraddistingue tutti gli esseri viventi (e pensanti) proprio in quanto tali.
1 commento
Il processo alle Pussy Riot è un ulteriore tentativo del Cremlino di scoraggiare e delegittimare il dissenso. Un tentativo che è destinato al fallimento”.Lottare per la libertà di espressione è un dovere che non conosce confini. Ovunque il silenzio tenda ad assumere i contorni nebulosi di un imperativo categorico imposto dai vertici gerarchici di un potere vigente, là deve allora entrare in funzione l’istinto di autoconservazione e autoaffermazione che contraddistingue tutti gli esseri viventi (e pensanti) proprio in quanto tali.
SE NON ORA QUANDO