di Agnese Bertello
Di velo non ce n’è uno solo, ma ce ne sono infinite varianti
Il velo intorno al volto di una donna genera in noi occidentali le emozioni più contrastanti; può sedurre e provocare diffidenza allo stesso tempo, ma di rado ci si sofferma ad analizzare come è appuntato, di quanti e quali elementi si compone, fino a dove arriva… Un occhio poco allenato non distingue le differenze. Dettagli, ma tutt’altro che insignificanti, perché dicono chiaramente da dove una donna provenga e di quale cultura sia portatrice. Di velo, infatti, non ce n’è uno solo: ce ne sono infinite varianti. Ciascuno caratteristico di una particolare zona geografica, frutto di una cultura diversa, risultato del diverso modo in cui fede, storia, costumi, tradizioni, rapporti di potere tra i sessi si sono intrecciati nel corso del tempo.
L’Occidente ha cominciato ad occuparsene verso la fine del XVIII secolo e l’interesse per il velo, insieme a quello per l’harem, è cresciuto di pari passo a un’idea morbosa dell’Oriente, come luogo esotico, sensuale, misterioso. Ad uso e consumo dell’Occidente.
L’equazione donna velata uguale donna musulmana, scontata ai giorni nostri, un tempo non lo era. L’uso del velo, infatti è attestato fin da epoche remote, pre-islamiche, e le sue origini sono forse legate a ragioni igieniche e pratiche, le stesse per cui ancora oggi i Tuareg del deserto si avvolgono il capo in uno spesso turbante. È proprio in questo ambiente nomadico che l’Islam nasce e si sviluppa.
Nel 620 d.C. quando Maometto riceve le prime rivelazioni, il velo era d’uso comune anche nelle civiltà sasanidi, cristiano-orientali e bizantine: a indossarlo erano le donne nobili, per le quali era, però, soprattutto un elemento di distinzione. I musulmani, all’epoca, non erano che uno sparuto gruppo di credenti all’interno di comunità pagane o ebree ben più radicate.
Distinguersi, assumere un’identità riconoscibile, capace di rafforzare la coesione interna al gruppo era prioritario ed è questa la funzione che il velo viene a svolgere nel mondo islamico: “O profeta! Dì alle tue spose e alle tue figlie e alle donne dei credenti che si ricoprano dei loro mantelli; questo sarà più atto a distinguerle e che non vengano offese. (Corano, XXXIII, 39)
Il Corano usa la parola hijab per indicare il velo, o il mantello, che le donne dovrebbero indossare; ma hijab significa più genericamente ‘tenda’ o ‘cortina’, indica cioè qualcosa che separa, divide, protegge. Divide per esempio le zone private da quelle pubbliche all’interno delle case arabe, separa il califfo dal popolo all’interno della moschea, protegge le donne dagli sguardi impudenti degli uomini. Protegge lo stesso Maometto, rappresentato in molte miniature con il volto coperto. Non è un elemento che reprime, ma che caratterizza e conferisce nobiltà: le prime ad indossarlo sono le mogli del profeta. Su loro esempio, il velo diventa caratteristico dell’abbigliamento delle donne musulmane delle classi più elevate che in questo modo evitavano di mescolarsi e confondersi con le donne del popolo, le schiave, le prostitute, e le donne di altre religioni.
Il hijab, quindi, che pure era presente nella cultura delle popolazioni nomadiche in cui nasce l’islam, acquisisce per via dell’influenza delle civiltà sedentarie e patriarcali con cui i musulmani entrano in contatto, un significato diverso – distinzione tra classi sociali – e si trasforma poi in segno di appartenenza a una comunità.
Quella citata non è l’unica sura che si occupa dell’abbigliamento, ma le altre parlano più genericamente dell’atteggiamento pudico che una donna deve tenere, oppure sono indifferentemente riferibili agli uomini e alle donne. In nessun caso, ad ogni modo, il Corano specifica come dovesse essere questo velo o mantello “atto a distinguere: doveva coprire solo i capelli o anche il volto? quanto doveva essere lungo? e come doveva essere appuntato?
A determinare questi aspetti sono le tradizioni dei singoli paesi, usi preislamici che vengono assorbiti e forzatamente integrati nella nuova fede.
Se il Corano è uno, infatti, i paesi e le popolazioni in cui questo si è radicato, dall’India fino al nord Africa, sono così tanti e così diversi, per storia e cultura, da far sì che si parli oggi di islams, di mondi dell’Islam. L’uso, il valore, la radicalità del velo cambiano nello spazio e cambiano nel tempo, all’interno degli stessi paesi islamici.
Se non è possibile indicare con certezza quanti siano i “veli islamici – tanto che quella che vi forniamo è una breve panoramica sui più comuni veli dei paesi del medio oriente – l’’uso del plurale è però d’obbligo.
Scandagliare la realtà complessa, concreta e quotidiana del velo – realtà che riguarda nel mondo 60 milioni di donne – significa prima di tutto accettare che questa sia una realtà sociale e storica, e in quanto tale in continua trasformazione. Il contrario, cioè, di una verità assoluta e immutabile.
Agnese Bertello – Dal 2007 collabora con Allea, agenzia di comunicazione e relazioni istituzionali specializzata in tematiche energetiche ed ambientali. In particolare, cura i contenuti del blog www.energiaspiegata.it Negli anni si è appassionata al tema del Consensus Building, in particolare con riferimento alle contestazioni a carattere ambientale. Nel 2010 ha seguito un corso di formazione per facilitatori nella gestione dei conflitti con Marianella Sclavi. Dall’inizio del 2006 è on line anche il suo blog sui temi legati al giornalismo: http://www.grovigli.splinder.com