Samia Yusuf Omar, somala, amava lo sport. Voleva solo correre ma il sogno di Samia si è infranto tra le onde del mare.
Voleva solo correre. Non per vincere ma per partecipare, per poter almeno sventolare il vessillo della Somalia, il paese in cui era nata 21 anni fa e che le aveva regalato solo sofferenze indicibili fatte di guerre, soprusi, violenze, divieti e imposizioni.
Lei, Samia Yusuf Omar, figlia di una fruttivendola e orfana di padre (ucciso da un proiettile d’artiglieria) era la maggiore di sei figli e quindi, in un certo responsabile della sua famiglia.
Amava lo sport. Aveva partecipato alle Olimpiadi del 2008 a Pechino (arrivando ultima nella corsa dei 200 m) e avrebbe voluto essere presente anche a Londra. “E’ stata un’esperienza bellissima”, aveva detto tornando in patria, “Ho portato la bandiera somala, ho sfilato con i migliori atleti del mondo”
Si era allenata con passione per tornare in pista e rivivare quell’incanto da cui era stata abbagliata. Teatro dei suoi sforzi non era lo stadio di Mogadiscio (convertito in base operativa dal governo militare) ma le strade cittadine. Per questo si era ritrovata spesso oggetto di aggressioni verbali e fisiche da parte dei connazionali (maschi) contrari al suo abbigliamento sportivo così poco consono ai dettami islamici.
Chi le voleva bene, però credeva in lei. Al punto da arrivare a fare una colletta per finanziarle il viaggio che l’avrebbe condotta in Italia alla volta delle coste britanniche, fino al villaggio olimpico.
Un lungo percorso iniziato in Etiopia nel 2011 e proseguito attraverso il Sudan fino al porto libico da cui era riuscita a salpare su un barcone carico di immigrati.
Non è mai arrivata in Italia. Il sogno di Samia si è infranto in mare, nel mese di aprile, anche se la notizia della sua scomparsa è stata diffusa con molto ritardo per bocca di Abdi Bile, un atleta somalo noto alle cronache per l’oro conquistato nella gara dei 1500 m ai Mondiali di Roma del 1987. “E’ morta per raggiungere l’Occidente”, ha spiegato l’uomo laconicamente.
Samia correva a nome delle donne, di tutte le donne. Aveva fiducia nelle loro immense potenzialità spesso volutamente soffocate dai regimi politici e dal fondamentalismo religioso. Sosteneva il diritto femminile all’emancipazione e lo faceva nell’unico modo che conosceva: correndo in un contesto dove lo sport restava un privilegio élitario prevalentemente maschile.
Era fermamente intenzionata a dimostrare al mondo intero che con determinazione, perseveranza, pazienza e caparbietà una donna può invece superare anche i peggiori ostacoli. Avrebbe desiderato che dal suo esempio le donne oppresse traessero la convinzione di poter arrivare ovunque volessero.
Ora Samia non c’è più. Resta la sua storia. Una storia da ricordare ad ogni difficoltà.