di Agnese Bertello
Come l’usanza del velo si differenzia nei vari paesi musulmani
Himar
È il velo più classico, semplice e diffuso nel mondo islamico. Di lunghezza medio-corta, copre le spalle, ed è chiuso sotto il mento con una spilla oppure semplicemente con un nodo. Può essere di molti colori, in fantasia oppure in tinta unita. In Turchia si usa esclusivamente l’himar. In Egitto, invece, con questo stesso termine si intende un indumento leggermente diverso; i veli sono in realtà due: un primo raccoglie i capelli e viene legato dietro la nuca, un secondo, lungo fino alle ginocchia, viene appoggiato sopra questo e tenuto con le mani.
Hijab
la parola hijab deriva dal verbo arabo hajaba: ‘nascondere’. Anche lo hijab è composto da due pezzi: una prima cuffia che raccoglie e copre i capelli, tenendoli fermi, e un velo vero e proprio che viene appoggiato su questa. Spesso si lascia che la cuffia sporga da sotto il velo. È usato soprattutto dalle ragazze. Può essere solo legato sotto il mento oppure appuntato con una spilla. Le punte del velo possono essere lasciate cadere morbidamente sul corpo, oppure, per ragioni di praticità, possono essere avvolte attorno al collo a mo’ di sciarpa, in particolare quando si devono svolgere attività di tipo pratico.
Ha’ik
Il termine deriva dal verbo haka, che significa ‘tessere’ ed indica una stoffa tessuta in maniera tradizionale, in casa. A seconda delle diverse usanze possono essere usati fili di seta, come in Algeria, o di lana, come in Tunisia. L’haik viene tenuto stretto con la mano. Una volta era molto comune in Algeria, oggi invece è usato nelle occasioni speciali: le spose, per esempio, lo usano come mantello per coprire il loro abito da sposa all’inizio della cerimonia.
Jallaba +jar
Tipico del Marocco, la jallaba è una sorta di tunica con cappuccio legato sotto il mento e stretto intorno ai capelli. Jar è invece il nome del pezzo di stoffa che copre il volto.
Il jar può riprendere la tonalità del cappuccio o del mantello e può avere elementi decorativi in pizzo. Anche la lunghezza può variare; in Marocco, ad esempio, il jar arriva a coprire con morbidi drappeggi il petto.
Lihaf
Questo abbigliamento è tipico delle regioni dell’est dell’Algeria. Si tratta di un lungo velo di colore chiaro trattenuto sulla testa della donna da una fascia, avvolta a mo’ di turbante. Occasionalmente, i veli potevano essere trattenuti sulla testa da una coroncina d’oro o di altro materiale prezioso, in questo caso venivano usati anche altri monili tradizionali: bracciali, collane, spille.
Tarha
Il tarha è un velo sottile, bianco o nero, usato soprattutto in Egitto per coprire i capelli. Ad esso possono essere abbinati diversi tipi di stoffe per coprire il volto: lo yashmak, veniva drappeggiato sul viso a partire da sotto gli occhi; il bisha, poteva invece coprire l’intero volto; il burqu’, da non confondersi con il burka, è un tessuto di rete sottile, legata intorno al capo, sotto gli occhi, e aveva al centro, sopra il naso, un piccolo decorativo cilindro d’oro o di ottone. Tradizionalmente, la scelta del tipo di velo per il volto dipendeva sostanzialmente dalla classe sociale: lo yashmak veniva usato dalle donne aristocratiche o di classe sociale elevata, il burqu’ tendenzialmente dalle donne di basso livello sociale, mentre il bisha non aveva precise connotazioni. Questo tipo di abbigliamento si usa molto anche nello Yemen, in Afghanistan, in Iran, decisamente meno nei paesi del nord Africa.
Kinaa
Questo velo viene usato tradizionalmente in Siria, si chiude intorno al viso ed è di norma di colore nero. La kinaa viene di solito abbinata ad un altro piccolo pezzo di stoffa che viene legata intorno alla testa a mo’ di corona, sopra gli occhi. Questo velo per il volto è fatto di due strati, uno più pesante e uno,quello più interno, più leggero e trasparente. A seconda delle situazioni, la donna che indossa la kinaa potrà scegliere di tenere abbassati sul volto entrambi i veli, di sollevare solo il velo esterno, più pesante e coprente, oppure, se la situazione lo permette, può sollevarli entrambi.
Kambus
Il kambus si usa soprattutto nel sud dell’Algeria. È una sorta di tunica che si infila dall’alto, copre il capo, viene legata in vita e ha un’unica piccola fessura che lascia libero un occhio. È di stoffa sottile, generalmente bianca. In Algeria esiste un velo analogo chiamato milaja.
Niqab
Il verbo arabo naqaba significa ‘velare la faccia’; il niqab è il nome del pezzo di stoffa che copre il volto della donna: ne esistono esemplari molto raffinati ed eleganti, con particolari in pizzo. In Egitto, il niquab è pesante e nero, attraversato da una sottile fessura per vedere. Nello Yemen e negli Emirati Arabi il niqab ha assunto una forma particolare: si tratta di una tunica intera infilata dalla testa che copre completamente capo, volto e corpo; all’altezza degli occhi vengono lasciate due aperture, i bordi di queste fessure sono spesso molto ricamati e gli occhi della donna che emergono sono molto truccati.
Chador
Nero, lungo fino ai piedi, viene chiuso esattamente all’altezza del mento, in modo tale che il solo volto emerga dal velo, quasi fosse disegnato. Il chador può essere appuntato con spille, ma può anche essere completamente cucito in maniera tale da lasciare emergere solo l’ovale del viso. È tradizionalmente usato dalle donne della minoranza sciita, ed è diffuso soprattutto in Iran.
Burka
Diffuso in Afghanistan, il burka copre integralmente la figura della donna lasciando solo una finestrella a rete davanti agli occhi per intravedere il mondo esterno. Può essere di colori molto accessi: verde, azzurro, arancio. Il termine deriva dal verbo arabo barqa’a: ‘velare’.
Agnese Bertello – Dal 2007 collabora con Allea, agenzia di comunicazione e relazioni istituzionali specializzata in tematiche energetiche ed ambientali. In particolare, cura i contenuti del blog www.energiaspiegata.it Negli anni si è appassionata al tema del Consensus Building, in particolare con riferimento alle contestazioni a carattere ambientale. Nel 2010 ha seguito un corso di formazione per facilitatori nella gestione dei conflitti con Marianella Sclavi. Dall’inizio del 2006 è on line anche il suo blog sui temi legati al giornalismo: http://www.grovigli.splinder.com