di Cristina Obber
(autrice del libro Non lo faccio più)
Il lavoro che ho svolto negli ultimi due anni mi ha sconvolto non tanto per gli accadimenti che mi sono stati raccontati, dei quali mi aspettavo la drammaticità, ma per l’inconsapevolezza che questi avvenimenti portano con sè. E questa inconsapevolezza riguarda gli autori ma anche le vittime della violenza.
Nella maggioranza dei casi gli autori sono persone conosciute dalla vittima.
La violenza da un amico, da un compagno, è più complessa da superare poiché viene meno la fiducia nel prossimo, ci si sente tradite e si soffre perché quel tradimento diventa un proprio fallimento sentimentale.
Veronica, la ragazza che mi ha dato la sua testimonianza per il libro, a distanza di dieci anni dalla violenza di gruppo subita dai suoi amici dell’università, dice oggi: “Non mi sconvolge quello che hanno fatto gli altri, mi sconvolge quello che ho fatto e non ho fatto io. Non ho denunciato. Perché un po’ me lo meritavo. Questo sentivo, colpevoli loro, colpevole io. Eppure sarebbe bastato farmi visitare prima di lavarmi, farmi fare un prelievo vaginale, lo sperma era ancora tutto lì. Non l’ho fatto, non sono stata consapevole di me”.
In una scuola due settimane fa una ragazza mi ha chiesto come si fa a denunciare un fidanzato che ti ha fatto violenza sessuale, come si fa a mandarlo in prigione se ne sei innamorata.
Quando sei coinvolta è difficile definire il confine tra amore e violenza.
Chi subisce violenza innalza barriere, si difende con i sensi di colpa, ma manifesta anche disturbi post traumatici che se non vengono gestiti diventano duraturi. L’aggettivo duraturi fa la differenza.
Depressione, problemi relazionali, autolesionismo, disturbi dell’alimentazione.
Questi disturbi ci richiamano anche alla necessità che il riconoscimento della violenza avvenga anche da parte di chi vive intorno alla vittima. Nella famiglia, a scuola, tra i colleghi sul lavoro.
Perché una donna che viene stuprata e non denuncia, che non parla con nessuno della violenza subita è una donna che improvvisamente cambia; che manifesta quei disturbi che, nel caso di minorenni ad esempio, spesso vengono considerati dai genitori solamente delle esasperazioni di comportamenti che fanno normalmente parte dell’adolescenza. Se della violenza non si parla, l’attenzione va altrove.
C’è bisogno di un riconoscimento sociale chiaro della violenza. Di una definizione più precisa. Oggi nell’immaginario collettivo la violenza sessuale si riferisce ad una violenza ad opera di uno o più sconosciuti che ti aggrediscono per strada o in un parcheggio.
Quando la violenza riguarda amici, conoscenti, o familiari, quando un femminicidio coinvolge due giovani fidanzati, allora le si vuol dare un altro nome.
I nostri bravi ragazzi “hanno esagerato” e le nostre ragazze un po’ “se la sono cercata”. E ragazzi dolci e affettuosi hanno “perso la testa”.
E quante donne adulte sono in prima linea a difendere i maschi violenti? A giustificarli, a puntare il dito per prime contro altre donne?
Queste sono manifestazioni di inconsapevolezza collettiva, sono menomazioni della coscienza sociale che si riflettono sul pensare e sul sentire dei giovani.
Le ragazze si sentono davvero complici di ciò che potrebbe loro accadere ancor prima che accada, i ragazzi si sentono già protetti da una famiglia e da una comunità territoriale e nazionale pronta a comprenderli e perdonarli.
Dopo la violenza ai danni di una loro amica, i due diciannovenni abruzzesi, ad agosto, il giorno dopo l’accaduto, hanno confidato ad un amico di aver fatto “una fesseria”.
Una fesseria è un giro in moto senza casco, una fesseria è esagerare con l’alcool e vomitare tutta la notte.
Mi violenti di nuovo se parli di “fesseria”.
Chiediamoci perché un ragazzo di 25 anni può associare allo stupro il sostantivo “fesseria”. Come si costruisce questo linguaggio?
La stampa, la tivù, hanno una grande responsabilità, nel gergo, nell’uso delle parole, nella costruzione degli articoli.
Ma dobbiamo smetterla di giustificare, di minimizzare, tutti.
Tanti femminicidi sono l’epilogo di violenze perpetuate per lungo tempo, a volte anni, con i parenti che cercano di riappacificare, con i vicini che non si vogliono impicciare, con le forze dell’ordine che non sono preparate nelle valutazioni dei rischi.
Ma la violenza sulla donna non è soltanto quella efferata che finisce sui giornali, c’è un problema di relazione quotidiana distorta che ci riguarda tutti, di cui si parla poco proprio perché è più facile guardare altrove che dentro le nostre relazioni.
La violenza molte volte si costruisce insieme, accettando ruoli e gesti, giorno dopo giorno, tra compagni di scuola, tra fidanzati, all’interno della famiglia.
Perchè la politica riconosca la violenza – e la deve riconoscere, mettendola tra le priorità dell’agenda, perché se non si è nel calendario delle urgenze anche il miglior progetto di legge non troverà mai il tempo per essere discusso, non troverà risorse – ma per chiedere alla politica di riconoscere la violenza come un problema sociale dobbiamo prima riconoscerla noi, nelle nostre vite.
Anche il nostro linguaggio, quello di noi donne, un linguaggio familiare spesso fatto di silenzi-assensi deve rinnovarsi, senza paura di riconoscere anche dentro le nostre mura sintomi ed espressioni di violenza, di quella violenza psicologica appena percettibile a volte e che proprio per questo ci si abitua a trascurare.
Nella maggior parte dei casi le donne aspettano, portano pazienza, come deve fare una buona madre di famiglia, in nome della sacralità della famiglia.
Le donne portano pazienza perché si comincia con piccole umiliazioni, su cui si può sorvolare, oppressioni che ingrossano le spalle anziché far alzare la voce, velate intimidazioni che si fanno sempre più fitte.
Mentre i figli ascoltano, respirano, fanno loro quelle modalità di relazione.
A volte si va avanti così per anni, senza che nessuno alzi le mani.
Poi un giorno la donna rompe il meccanismo, rompe quel silenzio-assenso che in fondo la lascia vivere tranquilla, rassegnata ma tranquilla, quel silenzio che non turba apparentemente il quieto vivere della famiglia. Ecco che arriva il primo schiaffo, e qui di nuovo una scelta: Testa bassa o testa alta; violenza fisica o psicologica, le modalità sono le stesse. Le difficoltà a dirci cosa ci sta accadendo anche. Ci nascondiamo dietro l’alibi del bene dei figli, sapendo di mentire.
Perché è il linguaggio di padri e di madri ciò che i nostri figli, crescendo, porteranno nel profondo, dentro di sé.
Cerchiamo di parlarne con i nostri compagni, che vivono in un mondo di uomini zitti.
E’ il silenzio che fa sÏ che sulla violenza il mondo maschile abbia davvero orizzonti ristretti.
Riconoscere la violenza per uno sguardo maschile è ancora difficile.
Gli uomini non solo non parlano, purtroppo non ascoltano.
Non ascoltano il No con cui li supplichiamo di non farci male.
“Quel No mi è rimbalzato” mi ha raccontato Marco, ricordando una violenza su una ragazzina. Rimbalzato. Non ti ascolto.
Quello che mi ha sconvolto in carcere, parlando con gli uomini, è il loro individualismo, la disabitudine ad ascoltarci. L’indifferenza.
<<continua>>
1 commento
Io sono una donna in pericolo. L’uomo con cui stavo e per cui ho lasciato una famiglia e 3 figli mi ha massacrata per 6 anni. Si è presentato come l’uomo più dolce della terra , varcata la soglia del tribunale a separazione avvenuta , lui è diventato un mostro. Lui è un professionista stimato ed ad oggi il pm , dopo la mia denuncia per violenze, estorsione e stalking non si è anora pronunciato. Io aspetto terrorizzata la sua reazione.