Mamme al lavoro, cosiddette “acrobate”, alla ricerca eterna di un equilibrio fra figli e famiglia da una parte, e lavoro e carriera dall’altra.
Donne che pur decidendo di diventare mamme e quindi di avventurarsi nella bellissima ma anche faticosa ed impegnativa esperienza di crescere uno o più figli, non depongono le vesti del lavoro ma anzi, vedono spesso nella maternità una carica e una spinta in più per proseguire a lavorare. L’indagine campionaria condotta nel 2002 dall’Istat parla chiaro: il 51% delle madri con bambini al di sotto dei due anni mantiene il lavoro anche dopo la maternità, contro il 12% di coloro che lo abbandonano. In tanti sono portati a pensare che l’occupazione femminile, soprattutto da parte delle mamme, sia in buona parte attribuibile ad esigenze economiche che rendono spesso necessari due redditi familiari, soprattutto laddove vi sono anche dei figli da mantenere e crescere. Personalmente, e le statistiche e le ricerche in merito lo confermano, ritengo che questa possa essere una motivazione reale e presente ma non sufficiente per spiegare l’investimento delle donne nel mondo del lavoro, spesso a costo di grandi sacrifici ed enormi fatiche per cercare di conciliare lavoro e famiglia. Penso piuttosto che stia cambiando la concezione di maternità: a differenza delle generazioni precedenti, essere e fare la madre non ha più una valenza assoluta, bensì viene vissuta come una dimensione personale importante ma non esclusiva, che può essere integrabile e non in contrapposizione alla propria realizzazione professionale.
La maggior parte delle donne che si affacciano per la prima volta alla maternità hanno fra i trenta e i quaranta anni, sono reduci da lunghi percorsi di studio e magari sono entrate da poco nel mondo del lavoro dopo tante fatiche e incertezze; sono all’inizio del loro percorso professionale e quindi anche nel clou della loro carriera. In virtù di ciò, è ragionevolmente comprensibile che, pur non volendo rinunciare alla maternità per far carriera, non vogliano neanche lasciare tutto quello che possono aver faticosamente guadagnato fino a quel momento, consapevoli peraltro che quando si esce (seppur per un periodo transitorio) dal mondo del lavoro, si è out ed è assai difficile rientrare, soprattutto agli stessi livelli, mantenendo fermi i contatti e in un periodo come quello attuale in cui il lavoro scarseggia. E poi, perché dovremmo chiedere alle donne di rinunciare (seppur temporaneamente) al lavoro? Come scrive Wendy Sachs nel suo libro “Mamme Manager”, nessuno chiederebbe mai ad un uomo di rinunciare al lavoro per i figli; anzi, se continua a mantenere gli stessi ritmi o talora, come si evince dalle statistiche, addirittura ad aumentarli, è socialmente accettato e legittimato “perché ha una famiglia da mantenere”. Questo ci fa capire che sebbene stia evolvendosi e quindi mutandosi la concezione della maternità da parte delle donne, i miti popolari – che hanno radici storico-sociali secolari – dell’uomo “breadwinner” e della donna “regina del focolare”, sono duri a crollare.
Le donne, alla stregua degli uomini, vivono il lavoro non solo come introito economico ma anche come una forma di espressione e di valorizzazione della propria identità, in quanto il lavoro contribuisce in modo significativo a definire l’identità sociale della persona. Non solo. In linea con quanto scrive Marina Piazza nel suo libro “Le trentenni. Fra maternità e lavoro alla ricerca di una nuova identità”, il lavoro rappresenta anche una forma di realizzazione personale e un canale per aprirsi al mondo, poter esprimere le proprie idee e dare il proprio contributo, con conseguenti vissuti di soddisfazione e di gratificazione personale. Infine avere un lavoro e quindi un proprio stipendio contribuisce a definire e rafforzare una dimensione di autonomia e indipendenza, sia dalla famiglia di origine sia dal marito o compagno. Simone de Beauvoir nel suo storico “Secondo sesso”, sosteneva che è il lavoro che “può garantire (alla donna) la libertà concreta”. Diventare mamma non significa dover rinunciare ai propri sogni, alle proprie aspettative e quindi anche alla propria realizzazione professionale. Al contrario, dovrebbe rappresentare un ulteriore motivo di soddisfazione e di gratificazione e in quanto tale, uno sprone e uno stimolo importante per riuscire meglio anche nel lavoro.
Francesca Lemmi, psicologa clinica, psicoterapeuta cognitivo-comportamentale e specialista in sessuologia clinica. Oltre alla salute e ai disturbi psichici degli adulti, dall’inizio della sua attività si occupa di prevenzione e cura del disagio infantile e adolescenziale. Ha lavorato prima presso la Neuropsichiatria Infantile e poi presso il Centro per la diagnosi e la cura dei disturbi alimentari del Dipartimento di Endocrinologia dell’Ospedale di Pisa, specializzandosi nella prevenzione e cura dei disturbi alimentari in età evolutiva e adulta. Da anni lavora come libero professionista a Pisa e Viareggio. Lavora come consulente psicologo nelle scuole con progetti riguardanti temi quali l’intelligenza emotiva, lo sviluppo di abilità sociali e di comunicazione, gestione dell’aggressività (prevenzione del bullismo), promozione dell’autostima e orientamento scolastico. Inoltre gestisce progetti di formazione per gli insegnanti. Svolge attività di formazione rivolta a adulti, coppie, genitori e adolescenti e in particolare, da anni si occupa di genitorialità con corsi di formazione per genitori e corsi per la gestione dello stress rivolti a madri lavoratrici.Infine svolge attività di consulente peritale soprattutto in merito a tematiche riguardanti minori.