di Cinzia Ficco da Tipitosti.com
Rosy Canale: Le mie cicatrici? Sono la mia spada
Rosy Canale: tostaggine allo stato puro. Calabrese, 40 anni compiuti a maggio scorso e una consapevolezza: “Non ho mai dubitato se scendere a patti o meno con la ‘ndrangheta. L’ho fatto e basta. E questo non si chiama coraggio”.
Quel no alla malavita, però, l’ha pagato a caro prezzo. Un giorno dei sicari l’hanno riempita di calci e pugni. Era la bellissima proprietaria di Malaluna, un locale nel pieno centro di Reggio Calabria.
Capelli rosso fuoco, tacco tredici indossato mentre faceva roteare i cocktail al bancone del suo locale, il più trendy. Ma in certe terre amare prima o poi qualcuno bussa alla tua porta per importi complicità e obbedienza. Rosy dice no e la sua vita si schianta la notte in cui la ndrangheta decide di impartirle una tremenda lezione.
Si spegne la signora Malaluna, per risvegliarsi anni dopo, il 15 agosto del 2007, quando le immagini di sei corpi crivellati a Duisburg, in Germania fanno il giro del mondo, ricordando a tutti che la ndrangheta è feroce e ramificata. E che San Luca, il comune della Locride, noto per una faida decennale tra cosche, resta la “mamma” del crimine calabrese. E’ da lì che riparte Rosy. E lo fa con le donne in Aspromonte che, come lei, cercano un destino diverso, non più solcato dal dolore e dal sangue. Solo così riuscirà a riconciliarsi con San Luca.
Ora Rosy vive negli States, protetta. E’ la fondatrice e la presidente del Movimento Donne di San Luca e della Locride, un’associazione no profit, che promuove progetti sociali in una zona ad alta concentrazione mafiosa, come scrive nel suo libro “La mia ndrangheta”, scritto con la giornalista Emanuela Zuccalà e pubblicato dalle Paoline di recente, che ha rischiato di non uscire più.
Leggendo l’intervista conoscerete meglio questo personaggio davvero straordinario.
Rosy, chi le ha dato il coraggio di dire no alla malavita? Non ha avuto paura che se la prendessero anche con la sua famiglia?
Io non lo chiamerei coraggio. Non credo ci voglia coraggio a dire no alla malavita. Lo dovrebbero fare tutti. Dovrebbe essere una cosa normale, non un atto di coraggio. Non mi sono mai fermata neanche un minuto a pensare se scendere o no a compromesso con la malavita. La mia è stata una scelta innata, spontanea direi, di cittadina italiana, che vuole vivere nella legalità. Di certo mi ha aiutato molto l’ educazione che ho ricevuto dalla mia famiglia. Dopo tanti sacrifici fatti per portare avanti la mia attività, l’idea che si sarebbe potuto pensare anche minimamente che mia figlia aveva un paio di scarpe nuove perché io spacciavo droga, mi faceva ammalare l’anima. Oggi in Italia c’è chi si vanta di certe appartenenze o chi addirittura le ricerca. Ho peccato di ingenuità, non ho mai creduto che potessero arrivare a tanto. Non volevo crederci. Pensavo che avrebbero bruciato il locale nella peggiore delle ipotesi.
Il suo no l’ha pagato a caro prezzo. Calci, pugni, ossa rotte, mesi di degenza in ospedale e una lunga riabilitazione per alimentarsi e riprendere a parlare. Con la mano destra non può più suonare il piano e di sicuro le cicatrici di quella violenza le conserverà per sempre. Ma ne è valsa davvero la pena? Cosa ci ha guadagnato? Non credo la giusta riconoscenza da parte dello Stato. E’ così?
Chi si oppone alla malavita non guadagna niente altro che la possibilità di guardarsi allo specchio ogni mattina senza provare disgusto per quel volto riflesso. La possibilità di essere un cittadino libero, cosa che uno Stato civile dovrebbe garantire. Anzi, spesso, al contrario, vieni visto come un pazzo, uno spavaldo, un’ eccezione. Le mie cicatrici sono la mia spada oggi. Mia figlia e la mia famiglia sono le cose più preziose che posseggo. Mi ricordano che c’è un’alternativa, sempre, anche se dolorosa. Certi valori vanno difesi e non si possono barattare, a nessun prezzo. Piegarsi alla malavita vuol dire partecipare e legittimare quella cultura primitiva e violenta. Lo Stato siamo noi, io godo della solidarietà di molti italiani e questo mi basta. Molti politici si riciclano nelle istituzioni: in questo momento né gli uni né gli altri mi rappresentano, anzi spesso provo vergogna per loro.
Giovanni Paolo II diceva che l’umanità sarà salvata dalla donne, perché hanno una forza incredibile, non solo sono madri, ma anche educatrici degli uomini. Ma è proprio così, soprattutto per le donne calabresi? Il marito calabrese è in qualche modo succube di sua moglie?
Vorrei sfatare certi “miti” sulla società calabrese. Gli uomini non portano la coppola ormai da più di 50 anni e le donne non hanno baffi, treccine e scialli! Di certo vi sono delle dinamiche diverse rispetto a certe realtà settentrionali, molto più emancipate, diversità dovute soprattutto ad un’ estrazione culturale di origine contadina. Le donne sono il seme del cambiamento, perché prima mogli, e in quanto tali hanno la possibilità di scegliere. Poi madri, perché hanno il compito di educare. E poi sono figlie, sostegno delle madri. Il mio cammino parte proprio dal pensiero di Giovanni Paolo II.
Educare i mariti e i figli malavitosi: è questo l’obiettivo della sua associazione?