È giusto che un’azienda si assuma il diritto di poter sindacare e condizionare pesantemente la vita di una persona e quindi anche di una famiglia?
Donne, giovani ma non solo, alle prese con la ricerca del lavoro, nella continua ed estenuante rincorsa a inviare curricula e nel cercare “l’annuncio giusto” nella speranza che qualche buon’anima possa rispondere e dare la tanto desiderata opportunità….
Molte di loro hanno anni di studi alle spalle magari con percorsi di tutto rispetto, titoli e votazioni talora anche eccellenti; altre sono reduci da precedenti esperienze lavorative e di nuovo ai blocchi di partenza per scelta o molto più spesso, per necessità.
Questa è la storia di tante donne, molte delle quali ripongono nel lavoro non solo la speranza di poter trovare un’occupazione che le soddisfi e le faccia sentire utili e realizzate, ma anche che dia loro un supporto economico per concretizzare altri progetti di vita importanti: matrimonio, figli, casa…
Fin qui niente di strano… Peccato che proprio su questo punto nevralgico si possano innescare paradossi assurdi. Infatti se è ragionevole pensare che il lavoro, in quanto anche sussidio economico, possa contribuire ad organizzare e portare avanti altre dimensioni della vita (dagli hobby a questioni decisamente più importanti), lo è decisamente meno vedere che spesso possono essere proprio alcuni di questi progetti a rendere più difficile e arduo l’inserimento nel mondo del lavoro.
A parte le doverose eccezioni felici (che ci sono, anche se in numero sempre troppo esiguo), non è così inusuale sentire molte donne lamentarsi di colloqui di lavoro assolutamente discutibili e non politically correct… l’avete presente la fatidica domanda che salta subito in mente al potenziale datore di lavoro quando si trova davanti una giovane donna fra i trenta e quaranta anni, ovvero in quella che a suo modo di vedere è proprio l’età critica (critica per avere figli)?
Al tipo incravattato che formula la detestabile richiesta – “ha intenzione di avere figli?”- chiaramente non interessa un fico secco se la donna che ha davanti a sé ha velleità di diventare madre, bensì la sua grande preoccupazione è che, assentandosi eventualmente per maternità, possa creare – a suo modo di vedere – grane per l’azienda.
Cosa rispondere? Se potesse esserci assoluta sincerità e trasparenza, non oso immaginare cosa potrebbe uscire dalla bocca delle donne che siedono dall’altra parte del tavolo… purtroppo l’esigenza lavorativa sempre più importante e preziosa ai tempi d’oggi, sollecita a dosare la reazione, per quanto sia pur sempre difficile individuare la risposta giusta.
Infatti se verte sul sì, possiamo dire addio ad un’ipotetica possibilità; se la risposta è no, si attivano varie possibilità: non ci credono oppure prendono rigidamente alla lettera la risposta data ma vogliono delle garanzie in tal senso, per cui la questione maternità/non maternità (che dovrebbe essere squisitamente un affair personale) diventa paradossalmente una clausola del contratto e degli accordi stipulati con l’azienda.
Non solo. C’è anche chi, non contento, chiede di firmare il famigerato “foglio in bianco”, che chiaramente risulterà come domanda di licenziamento nel momento in cui accidentalmente dovesse capitare una gravidanza. Purtroppo questa è solo una delle subdole e detestabili manovre con cui alcuni datori di lavoro si ritengono legittimati a “dare il ben servito” in caso di maternità. Ce ne sono molte altre tese a mettere la neo-mamma in difficoltà al rientro, declassandola rispetto al ruolo e al livello ricoperto prima, non coinvolgendola nelle attività dell’azienda e quindi mantenendo una condizione di esclusione, assegnando a qualcun altro ufficio o postazione lavorativa che un tempo le apparteneva, mettendola nelle condizioni di spostarsi per trasferte con la consapevolezza e la deliberata intenzionalità di metterla in difficoltà e magari dinanzi ad un aut-aut.
Il mondo del lavoro è anche questo, con realtà che chiudono le porte in faccia alle donne ancor prima che possano contemplare la possibilità di una gravidanza, che ostacolano la possibilità di conciliare famiglia e lavoro e che le mettono nella delicata e quanto mai difficile condizione di scegliere fra lavoro e figli, spesso facendo leva su ricatti morali, su manovre di esclusione e penalizzazione oppure precludendo a priori la possibilità di lavoro.
Lasciando da parte rabbia e reazioni emotive che tanto non avrebbero alcuna utilità, ritengo piuttosto opportuno fermarsi a riflettere:
Anche con gli uomini viene tenuto lo stesso atteggiamento e vengono poste le stesse richieste? No.
È giusto che un’azienda si assuma il diritto di poter sindacare e condizionare pesantemente la vita di una persona e quindi anche di una famiglia? Credo proprio che il diritto del lavoro avrebbe molto da dire al riguardo…
Se pensate, però, che questa situazione sia frutto solo della mente maschile e quindi di uomini che detengono il potere, vi sbagliate. Non è così raro che senta raccontare di situazioni similari in cui dall’altra parte del tavolo c’è una donna… una persona che dovrebbe capire, che dovrebbe avere dentro di sé quella spinta alla solidarietà femminile, che dovrebbe sapere quali possono essere i progetti e i desideri di una donna e di come si possa nonostante scelte personali, avere piacere e desiderio di dedicarsi anche al lavoro…
Sono tante le donne, ai vertici ma anche colleghe, che reagiscono con rabbia e disappunto alla dipendente/collega che rimane incinta, perché percepita come sabotatrice nei confronti del lavoro, in quanto assente per un periodo e per questo, di ostacolo all’azienda.
Dinanzi a queste tristi e vergognose realtà, spesso continuo a rimanere basita, incredula che ad oggi in cui si parla tanto di salvaguardia delle famiglie, dei diritti dei lavoratori e dell’esigenza di attuare politiche che possano incentivare l’occupazione femminile e giovanile, sia ancora possibile che datori di lavoro e aziende possano sabotare e ostacolare la maternità e la realizzazione da parte delle donne di progetti personali tuttora visti e considerati in antagonismo alle esigenze dell’azienda e che anche fra donne continui a sussistere la fallace convinzione che la maternità rappresenti un ostacolo al lavoro.
Ritengo che il basso tasso di natalità che caratterizza l’Italia a differenza di altri paesi europei, in particolare quelli scandinavi dove infatti il welfare è molto più attivo e impegnato sul fronte conciliazione famiglia e lavoro, sia indicativo del fatto che qualcosa nel sistema italiano – lavorativo, economico e sociale – non funziona. Se qualcuno pensa di liquidare la questione semplicemente asserendo che le donne di oggi vogliono meno figli, si interessano ad altro o hanno altre priorità, rispondo citando un proverbio popolare: “non c’è peggior sordo di chi non vuole sentire e peggior cieco di chi non vuol vedere”.