Ho paura di non poterti aiutare se tu non sarai sano come un pesce, forte come un toro, con la vista di un’aquila. Hai fatto caso alle mie parole? Tutti animali per cercare di fare il paragone con il mio cucciolo.
Non è colpa tua.
Sono io che ho paura di non essere alla tua altezza. Sono io che non so come potrei fare per aiutarti a finire i compiti di scuola. Certo, tu me li leggeresti e io ti ascolterei, questo so farlo bene. Sono certa che sarei in grado di trasmetterti quello che provo, sono sicura che saprei insegnarti tante cose nuove, quelle che ti faranno diverso agli occhi degli altri perché sarai più sensibile dei bambini della tua stessa età.
In questo preciso istante mi viene alla mente una lezione, che all’epoca non aveva minimamente destato il mio interesse: “… tra gli undici mesi ai tre anni circa, i bambini non comprendono l’handicap, ma aiutano inconsciamente i loro genitori. Poi cominciano, dai tre ai sei anni, a capire e a porre domande, come tutti i bambini, senza aver paura della diversità…”
La scatola della memoria si è aperta al momento giusto!
Tu, però, sarai in grado di farmi vedere come sei? Come diventerai?
Sono curiosa di sentire la tua voce, la tua risatina gorgogliante simile al suono di quei piccoli campanellini che tanto mi piacciono. Si, la tua risata me la immagino così: divertente e divertita. Festosa. Allora ti toccherò le labbra per capire come sei quando sorridi. E te le toccherò sempre, per capire come sei in ogni momento della tua crescita. Il timbro della tua voce, che inevitabilmente cambierà con gli anni, mi suggerirà come diventerai e quali saranno i tuoi tratti somatici modificati dal tempo. Tuo padre lo conosco così, con le mani, con l’udito e non ho mai sbagliato un suo stato d’animo.
Ho paura, lo stesso. Di non poterti dare quello che tu vorresti.
Una vita normale. Se tu avessi dei problemi come potrei aiutarti?
Ecco Luca, sento la chiave nella toppa.
“Tesoro eccomi, sei pronta?”
La punta di tensione nella sua voce l’ho avvertita subito, ma non gli dico nulla.
“Si, pronta”, cerco di convincermi mentre tremo come una foglia.
In macchina non ci diciamo una parola, lui con lo sguardo fisso alla strada, io dentro di me. Su di te.
In sala d’attesa aspetto che mi chiamino. Sono sudata e dò ancora la colpa al caldo.
“Signora Michela Leda”
“Eccomi”, mi alzo come una molla e chiedo a Luca di rimanere seduto, voglio andare da sola. Lui mi stringe la mano dicendomi soltanto: “È proprio davanti a te, pochi passi e c’è la porta.”
Faccio cinque passi. Solo cinque prima di entrare e sapere se sei sano.
Cinque piccoli passi per decidere se tenerti in ogni caso con me.
Cinque passi per comprendere che non voglio.
Non voglio farti vivere la colpa del mio handicap, della mia diversità.
Tu non hai colpe. Tu sei tu. Io non ho colpe. La mia vita ha preso la strada che ha dovuto e sento che potrò darti tanto di più. Potrò crescere con te. Tu potrai accompagnarmi nella mia crescita di donna, insieme a tuo padre.
Cinque passi per essere certa che non mi interessa più sapere come sarai. Adesso non ho più paura né della tua “normalità” né della tua eventuale mancanza di questa e tu non dovrai avere paura della mia condizione. Sarò incosciente, ma solo ora mi sento veramente felice di essere come sono: potrò darti tutta me stessa con la voglia e il coraggio e la pazienza che so di avere nei momenti di difficoltà.
Cinque passi per sentirmi già trasportata dentro di me, dentro di te.
Saremo la coppia più bella del mondo.
Sento lo sguardo di Luca puntato su di me. Uno sguardo pesante, carico di emozione, tensione, aspettative.
L’infermiera mi attende sulla soglia della porta, mi tende una mano che io afferro con gratitudine.
Dopo quattro mesi di ansia, di tensione più o meno immotivata, varco l’ingresso della stanza numero otto, ritiro referti.
Non ho più paura di non vederti, ora lo so con certezza che sarai la mia luce.
E la luce non si vede solo con gli occhi aperti: si sente con l’anima.
Anche la luce ha il suo odore, lo sai?
Dols
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