Cammina fino a raggiungere la zona industriale e lì si ferma ai bordi della statale. Il suo angolo si trova vicino a una vecchia cabina dell’Enel in disuso. Di notte ci vanno a bucarsi, ma a lei non importa. Uno perché tanto lei ci va di giorno. Due perché si sente parte integrante di quel mondo che la gente per bene preferisce ignorare. Non deve aspettare tanto. Non deve nemmeno compiere gesti plateali. Interpretare la sua presenza lì, da sola, immobile sul ciglio della strada, lontano dalla città, è piuttosto facile. Più difficile è trovare il coraggio, almeno per alcuni, di fermarsi e chiedere se hanno capito bene.
Mia puzza di guaio al solo vederla, per questo non ha amici. Ma a loro non importa. Quelli che se la incontrano mentre sono in compagnia della famiglia le puntano contro il dito, adesso la vogliono. Sanno che non devono ascoltarla, non devono parlarci o consolarla. Non devono nemmeno salvarla. Qualcuno ci penserà. Non c’è nemmeno bisogno che la guardino, se non vogliono farlo. Pensa a tutto lei. Chi si lascia impressionare dalle cicatrici può sempre alzare i tacchi e sgommare da qualche altra. Altri le notano, ma non se ne fanno un cruccio. Che importanza ha se il giocattolo ha qualche graffio? Basta che funzioni. E poi ci sono quelli che le apprezzano. Le cicatrici, quelle cicatrici, fuori sono lo specchio di qualcosa che si è rotto dentro, e i giocattoli rotti a volte, per qualche strana alchimia che non è possibile comprendere, funzionano lo stesso. Anzi, a volte funzionano anche meglio di quelli nuovi, perché hanno superato il margine del collaudo. Le cicatrici. Solo sua madre sembrava non vederle. Perché quando sei troppo preso da una cosa, non riesci a vedere altro. Non vuoi vedere altro. E quella donna, troppo presa a cercare il senso della sua vita sul fondo di qualche bottiglia, la figlia non la guarda mai. Forse per vergogna, forse per rabbia. Di certo per paura. Fu uno di loro a chiedere a Mia delle cicatrici. Successe una volta sola, uno più gentile di altri. E Mia, proprio perché questo sembrava gentile, rispose: “Se nessuno ha intenzione di entrarti in casa, lasciare la porta d’ingresso aperta o chiusa non fa differenza.”
Si tagliò per la prima volta a dodici anni. Non fu un atto volontario, ma solo un caso. E solo per un caso non si fece male sul serio. Tagliava in due una focaccia di quelle rotonde. Mano sinistra aperta sopra per tenere ferma la vittima sul tagliere, mano destra che muove la lama seghettata lentamente ma con decisione. Avanti e indietro. E appena oltrepassato il centro, qualcosa che cede di colpo all’interno della focaccia e la lama che, nel suo movimento all’indietro, penetra nella carne tra il pollice e l’indice della mano sinistra. All’inizio un dolore sottile, tanto da penetrare fin dentro le viscere. Poi il sangue che sgorga a fiotti e inzuppa la focaccia e il legno del tagliere che ci sta sotto. Un grido, e la madre di Mia che irrompe nella cucina e impallidisce alla vista di tutto quel sangue. E Mia che, mentre la madre incespica sui tasti del telefono per comporre il centodiciotto, sta ferma con il coltello a guardarsi la mano sinistra e quella ferita che sembra allargarsi davanti ai suoi occhi, e Mia pensa che le si staccherà il pollice mentre il sangue che cola lungo il polso e poi lungo il braccio la avvolge con una inattesa e gradevole sensazione di calore. Non prova dolore. Solo calore. E, strano, sollievo. Il sangue caldo. L’unica cosa calda nella vita di Mia.
<<continua>>