La sua voce tremava, così come il corpo; il fremito si manifestò nelle mani che Gavin ancora stringeva.
Un turbamento insolito, del tutto estraneo alla sua natura di uomo indifferente, gli fece battere il cuore più forte. Inventò la più banale delle scuse. «Perdonatemi, signorina, volevo accertarmi che stesse bene!»
La fanciulla tornò a volgere lo sguardo altrove, ben al di sopra delle sue spalle; consentendogli di tornare a osservare indisturbato la silhouette che l’abito turchese cercava di nascondere.
«Vi ho ripetuto incessantemente di non essermi fatta nulla!»
«Ciò nonostante il vostro gomito sta sanguinando!»
La fanciulla balzò in piedi, gemendo disperata.
«Non temete, è soltanto un graffio, passerà in fretta», le disse premuroso, invitandola a sedersi nuovamente.
Lei lo guardò indispettita. «Vi prego di lasciarmi andare. So badare a me stessa!»
«E io vi prego di lasciare a un esperto il compito di curare questa ferita!»
I suoi occhi fissarono la gente alle loro spalle. «State attirando l’attenzione di tutti! In quanto, alla parola esperto, ho i mie dubbi, signore», concluse sarcastica.
Gavin sorrise. Anzi era pronto a ridere di gusto quando le avvolse al gomito la sua cravatta e la vide sussultare e spalancare sorpresa i magnifici occhi.
«Dovrò riprendere severamente il mio valletto per non avermi fornito di un fazzoletto!»
Il tocco delle sue dita, evidentemente, la imbarazzava, poiché un rossore genuino le colorò le guance.
«Ma, signore, la vostra cravatta!»
«Appena dieci minuti senza di essa, non faranno di me un uomo senza onore!»
«Ve la restituirò al più presto!», gli disse timidamente, con tono dolce e lieve, ben diversa da quella dei suoi compatrioti.
«Ne ho centinaia, potete pure tenerla!», le rispose prolungando il contatto sulla pelle morbida.
«Che cosa credete che possa farmene di una cravatta, signore?»
Gavin tornò a fissarla: tutto ciò che li circondava scomparve. Il palazzo settecentesco, i bambini urlanti, gli adulti curiosi. Improvvisamente, nella sua mente apparve l’immagine della fanciulla, completamente nuda, il collo avvolto dal foulard che ora fasciava il suo gomito. Nel suo sangue l’eccitazione fluì velocemente.
«Signore! Mi state nuovamente fissando in modo deprecabile!», la voce della fanciulla, ora era indignata.
«Perdonatemi, il mio comportamento è riprovevole, come il fatto che non mi sia presentato: Visconte di Ashford al vostro servizio. Come mai parlate così bene l’inglese?». Infatti, la conversazione tra i due si era svolta, molto naturalmente, nella lingua anglosassone.
Lo sguardo della fanciulla si velò di rimpianto, con grazia si alzò e disse: «Sono un’istitutrice, milord. Il mio tutore ha pensato bene di darmi un’istruzione adeguata perché potessi provvedere al mio benessere quando lui non ci fosse stato più! Vi ringrazio per la cortesia, ma i bambini mi aspettano».
«Non mi avete detto il vostro nome! Quando potrò rivedervi?»
La domanda del visconte cadde nel vuoto.
Lucia si allontanò, cercando di mantenere la sua abituale espressione di fredda compostezza, ma dentro di sé era furente, sorpresa e … e non sapeva come definire quella sensazione di calore improvviso che la aveva pervasa quando lui l’aveva toccata. Sensazione che si era protratta a ogni suo tocco.
Doveva portare i bambini in casa e allontanarsi da quell’uomo e dal suo modo d’imporsi dolcemente. Non poteva permettersi di abbassare le barriere che aveva costruito intorno a se per difendersi dall’ignominia. Anche se quell’uomo era affascinante e meravigliosamente bello con i suoi capelli biondo scuro, i caldi occhi verdi, il sorriso aperto e sincero.
Il principe Giuseppe e il Conte Francesco si avvicinarono, con aria sorniona, al visconte. «Ci complimentiamo con voi; il vostro fascino ha colpito laddove noi avevamo miseramente fallito!»
Gavin indossò la maschera d’indifferenza che aveva imparato a indossare con gli estranei, già infastidito dal tono ironico del principe. «Non capisco a cosa possiate riferivi!»
I due si volsero ammiccanti verso la fanciulla, che ora si apprestava a radunare intorno a sé alcuni bambini.
«Lucia Aragona, ufficialmente istitutrice dei figli della baronessa Rabbene, ufficiosamente figlia bastarda del barone e di una danzatrice del ventre, di cui, si dice, l’uomo era completamente invaghito, donna passionale e molto portata alle arti amatorie. Purtroppo il barone è morto prematuramente, ben prima che potesse darle un marito. Così la povera piccina è rimasta senza difensori, cadendo tra le mani della perfida baronessa e attirando le attenzioni di ogni baldo giovanotto.»
Il principe sorrise beffardo, prima di continuare. «C’è in gioco un bel gruzzolo in palio, per chi riesce a trovare le vene amatorie della madre in quelle gelide della figlia».
Completamente disgustato da ciò che udiva, Gavin cercò di svincolarsi da quella ridicola conversazione. «Perdonatemi, ma devo inviare il mio valletto a Palermo a prendere i miei averi».
Si allontanò, ignaro dello sguardo sorridente che gli lanciarono i due giovani. Il principe disse: «Scommetto dieci onze che il visconte riuscirà, laddove tu hai fallito, mio caro amico!»
Il conte strinse la mano dell’amico, accettando la scommessa. Non avrebbe rinunciato alla ragazza.
<<continua>>