Chi è mamma e pure lavoratrice, lo sa bene, conciliare lavoro e famiglia è tutt’altro che semplice.
Tanto se ne parla, ma di fatto poco viene fatto in termini di welfare a livello politico e sociale.
In un articolo de “L’unità” del 21 dicembre 2011, si legge che “un milione di donne vorrebbe lavorare ma non sa a chi affidare i figli” e molte altre smettono di lavorare quando hanno bambini.
Dall’indagine Istat 2002, risulta infatti che solo il 57% delle neo-mamme con un figlio risulta occupata, mentre se i figli sono due, la percentuale scende al 45%.
Come precisa Francesca Zajczyk nel suo libro “La resistibile ascesa delle donne in Italia” (2007), tale percentuale varia anche in base alla professione e alla posizione professionale raggiunta: “…se consideriamo la categoria delle imprenditrici e delle libere professioniste, su cento donne la metà non ha figli; una situazione simile è riscontrabile anche tra le manager, dove il 43,1% delle donne non ha figli e la maggioranza delle madri ha un figlio solo”.
Inutile dire che tutto ciò porta ad un impoverimento sia economico e lavorativo che sociale, in quanto diminuisce il numero delle nascite, il Paese va incontro ad un progressivo invecchiamento della popolazione – secondo le indagini Istat Istat, si stima che fra 50 anni nel nostro paese ci saranno 6 anziani ogni 10 persone attive – e non investendo sulle donne, sulle famiglie e anche sulle nuove generazioni, non si promuove un aumento della produttività e della crescita dell’Italia.
Sono tante le mamme che lavorano e molte di queste alle prese con lavori che le impegnano fuori casa anche per giornate intere, in difficoltà nel conciliare l’impegno lavorativo con una famiglia di cui occuparsi e figli da crescere.
Penso alla mia categoria, ad esempio, quella delle libere professioniste…una categoria da molti considerata elettiva perché, in virtù dell’appellativo “libera”, si pensa erroneamente che possa garantire delle libertà che il lavoro dipendente non offre. Al contrario, chi esercita in questo ambito, sa molto bene che tutto ciò è molto aleatorio, in quanto anche se non c’è un contratto di dipendenza lavorativa con un’altra persona o ente, di fatto sussiste pur sempre un vincolo e un impegno con altri (i clienti), oltre al fatto che la libertà è solo teorica, in quanto la riuscita lavorativa, come anche la prospettiva di poter garantire continuità al lavoro se non ché di poter guadagnare, sono tutti aspetti legati all’impegno e alla disponibilità che la persona ripone nel lavoro. Le regole della libera professione, a meno che non si lavori in un contesto familiare e quindi protetto o non si abbia già un’attività avviata e con una certa garanzia lavorativa – che però vedo difficile in un’età compresa fra i trenta e i quarant’anni e con i tempi che corrono oggi – sono forti e taglienti: se ti fermi, sei perso e rientrare poi nel circuito, è tutt’altro che semplice e scontato. La competizione è alta, la concorrenza pure, in quanto persone più o meno titolate che esercitano la stessa professione ce ne sono e non poche, quindi una mancata disponibilità per un periodo prolungato o un forte rallentamento, può essere determinante per un’attività che necessita di un impegno costante.
Paradossalmente la libera professionista, proprio la lavoratrice popolarmente considerata più “libera”, di fatto è una donna che non ha neanche la libertà di concedersi la maternità con tutti i crismi del caso, perché stare per mesi fuori dal sistema lavorativo, significa annullare tutto ciò che è stato fatto fino ad allora e quindi per la legge del mercato del lavoro, essere out.
Con questo, non voglio stare a disquisire sulla libera professione e sul fatto che possa avere delle agevolazioni ma anche degli svantaggi e non di poca importanza, perché di fatto ritengo che ogni tipologia di lavoro abbia i suoi pro e i suoi contro con cui dover fare i conti.
La questione è un’altra.
Quali aiuti e agevolazioni ci sono per donne che lavorano tutto il giorno e hanno avuto la strana idea di fare anche un figlio?
Qualcuno potrebbe rispondere (perché l’ho sentito ripetere più volte) “aveva a pensarci prima”, come se un lavoro impegnativo dovesse annullare ogni desiderio e progetto di maternità e di famiglia. Peccato che la stessa cosa non venga detta e pensata per gli uomini; anzi, nel loro caso, “poverini, lavorano tanto perché devono mantenere la famiglia”!
Qualcun altro potrebbe dire che quando nasce un figlio, il lavoro deve essere ridimensionato e magari tagliato su alcuni fronti o per certi periodi. Tutto teoricamente vero, peccato che la teoria quando si scontra con la realtà, risulti tutt’altro che semplice e come in questo caso, di non facile risoluzione.
Infatti come dicevamo prima, se pensiamo al lavoro di un avvocato oppure di una commercialista o di qualsiasi altra libera professionista, è difficile ipotizzare che questa professionista possa rientrare regolarmente alle quattro del pomeriggio. O meglio, è fattibile ma significherebbe perdere una cospicua parte di clientela, in quanto gran parte di questa è disponibile ad andare a consulenza e quindi a chiedere un appuntamento nella seconda parte del pomeriggio quando si libera dal proprio lavoro e proprio quando tu, professionista ma anche madre, avresti necessità e desiderio di tornare dalla tua creatura.
Ecco che nasce il dilemma: che cosa faccio?
Qui scattano le scelte difficili e quindi anche i compromessi.
Ci sono coloro che scelgono pur preservando il lavoro, di ridurre e quindi di rientrare ad orari più ragionevoli al fine di stare con il pargolo, a costo di rimetterci in termini di lavoro e quindi anche economici, qualcuna con l’intenzione di mantenere possibilmente questo equilibrio a vita, altre con l’auspicio che sia una fase transitoria con il proposito di riprendere a pieno regime quando le richieste familiari rallentano e i figli crescono, seppur coscienti della fragilità e della mancata sicurezza di questa prospettiva.
Come scrive Francesca Zajczyk nel suo libro sopra citato, il “trade-off” famiglia-lavoro non ha più i connotati dicotomici “casalinga versus lavoratrice” di un tempo, in quanto il fatto di uscire dal mondo del lavoro rappresenta spesso per le neo-mamme una scelta transitoria. Tuttavia rimane indiscusso il fatto che rientrare nel mondo del lavoro ad un’età più avanzata per quanto non agée e dopo un periodo in cui si è state out, è tutt’altro che semplice, soprattutto in un contesto socio-economico come quello attuale in cui le opportunità di lavoro scarseggiano.
Altre, al contrario, continuano la propria professione a pieno regime, con qualche piccolo taglio e modifica ma sostanzialmente con un assetto pressoché invariato, con la difficoltà di sostenere emotivamente e praticamente la difficoltà di tale scelta. Sono quelle spesso meno capite, quelle più facilmente giudicate e considerate mamme incuranti in quanto molto assenti per lavoro. Non credo che la questione possa essere liquidata semplicemente in questi termini. Conosco molte mamme che lavorano tutto il giorno e non per questo, sono mamme di serie B o comunque negligenti verso i figli. Molte di queste, al contrario, sono mamme molto materne, che adorano i propri figli e desiderano stare con loro ma al contempo, sono anche donne che provengono da percorsi di studio prima e di lavoro dopo lunghi e impegnativi che si trovano a diventare madri nell’auge della loro carriera, quando devono anche dare e dare molto nel lavoro al fine di crearsi un’immagine sociale rispettabile, un giro lavorativo più o meno sicuro e quindi un lavoro avviato. Spesso sono donne molto coscienziose, con un forte senso del dovere e dell’impegno, con l’ambizione di realizzarsi anche nel mondo del lavoro, che vivono i figli come una dimensione importante della propria vita ma non l’unica e che si trovano a fare i conti con due impegni importanti che chiedono molto nello stesso periodo della propria vita, senza alcuna agevolazione e supporto sociale in termini di conciliazione.
Ecco allora che molte scelgono di affidarsi agli asili, alle tate o ai nonni, finendo così per accettare a malincuore di relegare il compito educativo dei figli ad altri per gran parte della giornata, consapevoli di rinunciare al piacere di assaporare ogni singolo attimo della loro crescita e di dover scendere inevitabilmente a compromessi con chi si occupa di loro.
Questo è un duro compromesso da digerire e da accettare che porta con sé spesso sensi di colpa, rabbia, dispiacere e preoccupazione, perché il piacere e il desiderio di fare la mamma deve essere contenuto e integrato col proprio impegno lavorativo, consapevoli che certi anni e certe epoche della vita dei figli non tornano più.
A tutto ciò si aggiunge l’aspetto economico e oneroso di tutto ciò, questione non da poco. Negli anni mi è capitato di conoscere molte donne che sono state costrette a lasciare il lavoro contro la propria volontà, perché non potendo contare su supporti familiari, sarebbero state costrette a lasciare i figli in asili e/o con tate, con un aggravio economico importante che alla fine del mese avrebbe significato spendere il proprio stipendio per pagare qualcun altro che si occupasse dei figli… pertanto la soluzione più ovvia e logica per molte, è stata quella di scegliere di stare loro stesse con i bambini a fronte di una maggiore tranquillità e sicurezza, dato che le entrate economiche sarebbero comunque state pari a zero.
Difficile dire quale sia la scelta più giusta, perché forse non esiste una soluzione ottimale per definizione, ma dipende molto dalla situazione individuale, familiare e lavorativa della mamma lavoratrice in questione. Ritengo, però, che sia assurdo che le donne si trovino a tutt’oggi a lottare con i propri sensi di colpa e con le difficoltà di conciliare lavoro e famiglia, senza che ci sia alcuna mobilitazione sociale e politica al fine di creare agevolazioni in tal senso.
Vedere ancora che un cospicuo numero di neo-mamme siano costrette a lasciare il lavoro per dedicarsi ai figli, perché non esistono agevolazioni e supporti sociali per conciliare i due ambiti e perché i costi e gli aggravi a livello personale e familiare nel lasciare i figli ad estranei (asili e tate) è alto, ritengo che sia ingiusto, oltre che assurdo. Infatti un maggior investimento a livello nazionale nei sussidi sociali per le famiglie e in materia di conciliazione lavoro-famiglia per le madri, implicherebbe un aumento del numero di nascite e di donne attive e impegnate nel lavoro, ovvero un aumento della produttività e delle entrate del paese e una maggiore mobilità lavorativa (aumento dei posti di lavoro). Non credo che questo sia molto complicato a capirsi e forse neanche troppo a realizzarsi, visto che altri paesi lo hanno già fatto e con risultati positivi.