di Maria Pia Ercolini da ”il paese sera”
Nel XV secolo a.C., Danae, figlia del re Acrisio di Argo, sopravvissuta alle vessazioni paterne, risalì il corso del fiume Incastro e scelse una rupe tufacea tra le colline e il mare, circondata da sorgenti, macchie e boschi, per fondarvi la città dei Rutuli…
“Grande resta il nome di Ardea, ma il suo splendore s’è spento”, scriveva infatti secoli dopo Virgilio, narrando la distruzione della stessa città per mano di Enea: dalle macerie arse dal fuoco si levò in volo un airone (Ardea cinerea) che ancora oggi compare, accanto all’ara di Danae, nello stemma comunale.
Creata da una donna e cancellata da un uomo, Ardea ha oggi una toponomastica assai singolare, che suddivide l’abitato in aree omogenee: nomi geografici, uccelli, fiori, piante, costellazioni, lasciano poco spazio alle intitolazioni umane (9% maschili, 2,3% femminili): 869 strade, 78 uomini, 20 donne. Tra i personaggi epici, trovano posto Penelope, Circe, Lavinia, Ecuba, Elena, Didone, Arianna, Andromeda, Cassandra, Sibilla – che innalzano l’indice di femminilizzazione al di sopra del 25%.
Ben diversa la situazione toponomastica della vicina Pomezia, dove i valori si ribaltano: il rapporto di genere scende al 5,2%, mentre le intitolazioni umane salgono al 22,5%. Sono 152 le strade dedicate agli uomini e solo 8 i personaggi femminili onorati da tale riconoscimento: Didone e Lavinia, Sirene e Naiadi, Selene e Afrodite, restituiscono alla città di fondazione la sua pregressa aurea mitica. Via Lavinia, nei comuni di Ardea e Pomezia, ricorda la giovane principessa che andò in sposa ad Enea; a lei venne dedicata la nuova città di Lavinium – ora Pratica di Mare, frazione di Pomezia – che il condottiero troiano fondò sul litorale laziale. Un nome leggendario ma una presenza muta, che Virgilio, nel XII libro dell’Eneide, riassume in pochi versi:
“Come quando si colora la rossa porpora con avorio indiano,
o come il rosseggiare di puri gigli, insieme
a tante rose, questi colori la vergine mostrava nel volto “.
Lavinia ed Amata
di Barbara Belotti
Lavinia ci viene presentata, nel VII libro dell’Eneide, sola nella grande reggia del padre, nubile e “già matura per le nozze”. Figlia del re Latino e di Amata, pochi versi la descrivono, passiva e silenziosa, accettare le scelte che altri fanno per lei; è promessa sposa del re Turno, sovrano dei Rutuli, ma non si accenna all’amore. Solo al momento del vaticinio sull’arrivo imminente di un eroe straniero, la figura di Lavinia diventa protagonista, ancora una volta in silenzio: mentre si stanno compiendo i riti, il suo corpo sembra prendere fuoco, i lunghi capelli, gli abiti e gli ornamenti regali si incendiano senza che lei soffra. L’evento prodigioso non lascia dubbi, la giovane è destinata non a “connubi latini” ma a “generi stranieri che, mescolando il sangue col nostro lo porteranno alle stelle, e dalla loro stirpe i nipoti vedranno il mondo volgersi tutto ai loro piedi e piegarsi, per dove il sole orbitando contempla entrambi gli oceani”. La sua esistenza è all’origine della grandezza di Roma e Virgilio sceglie, per questa figura, le caratteristiche perfette del genere femminile, confermando in età augustea il modello muliebre antico: ubbidienza al volere del padre (e poi del marito), accettazione delle regole familiari, prosecuzione della discendenza attraverso la procreazione.
Lavinia accetta tutto in silenzio; solo nel libro XII, sentendo Turno e Amata che parlano di destini di morte, l’accenno ad una reazione emotiva – “lacrime sparse sulle gote accese” – la rendono per un momento figura meno diafana e assente. Ubbidiente al destino come Creusa, la moglie troiana di Enea: entrambe percorrono i sentieri della vita tracciati da altri (il padre, gli dei, il destino), sanno scomparire al momento opportuno o vivere nell’ombra.
Molto diversa la figura di Amata, la madre di Lavinia. A questo personaggio i comuni di Ardea e Pomezia non dedicano alcuno spazio urbano: continua ad essere un personaggio scomodo il suo?
Lei non accetta le scelte del marito Latino, si oppone al matrimonio della figlia con Enea e lo fa con parole veementi, lacrime, gesti forti. Amata arriva a pronunciare frasi di potenza inaudita: “O madri latine, udite, dovunque siate: se negli animi pii rimane affetto per l’infelice Amata, e continua a mordervi la cura del diritto materno, sciogliete le bende della chioma, cominciate l’orgia con me.” Rivendica, la regina, uno ius maternum contro il volere del padre di darla in sposa ad Enea, esprime la volontà di non essere esclusa dalle scelte sulla vita della figlia. Le sue parole, insensate per Virgilio e per il mondo romano, sono l’espressione di una furia non controllata, di una donna che ha svestito i panni che la società antica le ha fatto indossare. In alcuni passi precedenti, il poeta ha narrato che Aletto, una delle Erinni, ha scagliato contro Amata un serpente che si “insinua nel seno fino al più profondo del cuore, perché infuriata dal mostro sconvolga tutta la casa. Quello, strisciando fra le vesti e il liscio petto, si snoda senza morderla, e la inganna rendendola folle”. Il destino della regina è tragico fino alla fine. Ancor prima dello scontro inevitabile fra l’eroe Enea e il suo antagonista Turno, Amata si toglie la vita impiccandosi. A questo punto un ultimo passo reintroduce Lavinia che, di fronte al corpo della madre esanime, si dilania “con le unghie i fluenti capelli e rosee guance”, dando inizio alle lamentazioni funebri.
I gesti e le parole di Amata non sono propri delle donne, sembra dire Virgilio, sono ispirati e provocati da esseri superiori e nefasti. Si conferma in questo modo la positività dei modelli muliebri tradizionali, appare netta la condanna per chi non rispetta quei codici di comportamento. Amata ha un gesto violento contro di sé e diventa espressione dello stereotipo che vede le donne incapaci di controllare le passioni: la sua figura fiera e imponente ai nostri occhi moderni viene sacrificata ad un destino di morte dal codice morale antico.