di Valeria Manieri, Segretaria Pari o Dispare
Il dibattito avviatosi sul Corriere della Sera e sul sito della 27esima ora, ha visto numerose esponenti appassionate della questione femminile dibattere su come rimettere al centro dell’agenda politica italiana le donne.
Di questi tempi, l’anno scorso, Pari o Dispare promuoveva un convegno in cui proprio la “questione femminile, questione Italia” era oggetto di diverse proposte. Oggi queste proposte vengono rimesse sul tappeto, non in un affollato convegno, ma in piena campagna elettorale.
Una campagna elettorale che, ancora una volta, non vedrà nessuna candidata donna alla Presidenza del Consiglio. Attualmente poi, nonostante sondaggi più o meno noti su fiducia e preferenze di italiani e italiane nei confronti di alcune donne in particolare, nessuna candidatura femminile viene considerata papabile per future alte cariche, compresa la Presidenza della Repubblica.
Bene: possiamo continuare a parlare per altri anni e per le prossime campagne elettorali di detassazione del lavoro femminile, di conciliazione, di part-time, essere soddisfatte di un lento afflusso delle donne che faticosamente arrivano a conquistare candidature nelle liste dei partiti… ma siamo ancora tra i pochi in Europa ad avere così tante difficoltà a includere le donne nella vita politica, sociale ed economica del paese. E questo è un fatto.
Siamo il solo paese in cui si preferisce parlare di quote o incentivi per le donne, ma non si riesce mai a riconoscere e ad accordare il merito (di uomini o donne che siano), stabilendo regole chiare.
Riprendiamo volentieri i dati che i professori Giavazzi e Alesina hanno così efficacemente ricordato: quando le donne studiano (e lo fanno in percentuali maggiori e sempre crescenti rispetto agli uomini) sono più brave. Questo è un altro fatto innegabile.
È evidente che questo dato più di ogni altro dovrebbe spiegarci quale sia in realtà il “Problema”: è inutile essere più brave, studiare di più, lavorare attraversando mille difficoltà, incluse quelle della cosiddetta conciliazione, o meglio della “mancata condivisione” dei carichi familiari, se il Paese ritiene di poterci tenere in panchina.
È ridicolo riuscire a salire di livello, dopo aver ingoiato rospi su rospi, o avere anni di esperienza o militanza, se poi non vi è, in nessun ambito della vita civile del nostro paese, un modo per essere riconosciute, premiate e sostenute, se non quello di aspettare che un benefattore si accorga di noi.
E quante sono anche oggi le donne che aspettano pazientemente (troppo pazientemente!) il proprio turno o un riconoscimento calato dall’alto di board o di partiti tutti al maschile?
La responsabilità di tutto questo è certamente di coloro che continuano a legiferare con misure spot senza attenuare in modo consistente il gap numerico e culturale che questo paese continua ostinatamente a conservare.
Ma la responsabilità è anche delle cittadine e dei cittadini che faticano a riconoscersi l’un l’altro meriti e competenze e che non sono pronti a combattere in modo unito e determinato, le troppe discriminazioni a cui sono quotidianamente sottoposte/i.
Le discriminazioni non sono questioni a compartimenti stagni e forse questo è il primo passo necessario per maturare una visione e una azione più progressista ed efficace nel nostro Paese.
A subire discriminazioni per l’assenza di regole trasparenti e di merito sono principalmente, ma non solo, le donne. Ci sono però anche gli immigrati e le immigrate, gli omosessuali e le omosessuali, le persone di diverso credo religioso, i malati.
Sul metodo trasparente e non tanto sulle quote di qualsiasi sorta, nonché sulla totalità delle tipologie discriminatorie, dovremmo concentrarci maggiormente. Dovremmo iniziare a guardare senza timori la complessità di una realtà che ogni giorno si arricchisce di nuovi e vecchi discriminati.
Ma in sostanza, quali misure davvero possono colmare gli ingiustificabili ritardi che il nostro paese da decenni accumula?
L’Italia è terribilmente in difetto con l’Europa su molti temi e lo è anche sulla piena attuazione della direttiva 54/2006, quella che richiede tra i suoi articoli al nostro paese -in modo esplicito- di mettere all’opera tutta la propria inventiva per creare uno o più organismi in grado di combattere in modo davvero efficace le discriminazioni di genere (e non solo). Questa richiesta viene confermata anche al comma 11 della direttiva 41/2010.
Una vera e propria Autorità contro le discriminazioni che non ha molto a che fare con nessuno degli enti o dei ministeri oggi operanti nel nostro paese. Tutti mancano del requisito fondamentale richiesto dall’UE: l’indipendenza dal potere politico. Nessuno dunque fino a oggi ha saputo garantire piena trasparenza e impegno incondizionato e indipendente dalle frette o dalle distrazioni della politica.
Su questo punto con Pari o Dispare desidereremmo molto insistere, essendo l’Autorità contro le discriminazioni una delle ragioni sociali su cui questa giovane organizzazione si fonda. Sarebbe utile (e questa è la proposta che Pari o Dispare vuole avanzare) che donne e uomini di buona volontà si mettessero a redigere una proposta per rendere attuabili le indicazioni europee. Occorre riflettere prima su quali siano le tipologie discriminatorie da includere, tenendo a mente che in Europa nessuna discriminazione viene slegata dalle altre.
Una donna del resto non è mai solo una donna: è una lavoratrice, un’immigrata, una madre, un’omosessuale, una minoranza etnica o religiosa. Non si può quindi tralasciare la prospettiva delle discriminazioni multiple.
Sul fronte invece dei provvedimenti miranti a migliorare la quantità e la qualità del lavoro femminile in Italia, vi è qualcosa da aggiungere rispetto al dibattito fino ad ora tenutosi sulle pagine del Corriere. Intanto vi è un pericolo da sventare e da intercettare tra alcuni propositi “elettorali”: sono da scongiurare eventuali innamoramenti da “quoziente familiare”, misura ostile a una visione più progressista del ruolo della donna nella società e che in taluni casi rende meno conveniente l’ingresso delle donne nel mercato del lavoro.
Una misura invece che si autofinanzia, che ha costi di attivazione modesti, sostenibile per le casse dello stato e che risponde ai requisiti di flessibilità e neutralità, è quella dei voucher ispirati al modello francese dei Cesu. I voucher universali per i servizi alla persona sono in grado di agire in modo neutrale nella gestione dei carichi di lavoro e di far riemergere una fetta importante di sommerso nell’ambito dei servizi alla persona (vedi colf, badanti, babysitter, assistenti di vario genere). I voucher avrebbero effetto anche sulla creazione di imprese private legate ai servizi e stimolerebbero anche il settore pubblico a fornire un servizio competitivo. Da segnalare anche che in Italia vi è un mercato privato dei servizi alla persona che potrebbe crescere ancora molto, visto anche il progressivo invecchiamento della popolazione e dunque l’aumento esponenziale della domanda . I voucher sono spendibili sia nel pubblico che nel privato, quindi le famiglie potranno decidere liberamente a chi rivolgersi, secondo le proprie esigenze.
Anche su questo, regole chiare, strumenti flessibili e neutrali, possono semplificare il lavoro che aspetta il prossimo Governo sulla questione femminile e su tutto ciò che ruota intorno ad essa.
Ancora una volta l’Europa può essere un’ottima alleata per noi donne: ci indica una strada già percorsa da seguire con maggiore convinzione e ci propone dei modelli sufficientemente elastici da poter essere calati nell’agenda di qualsiasi Premier.
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Ottima analisi e proposte utili