di Monica Lanfranco da Ilfattoquotidiano
Gli anni di attivismo femminista mi hanno rafforzata nell’opinione che è necessario dire forte e chiaro, soprattutto a chi si affaccia con occhi e mente più giovane alla società e all’impegno, che non basta essere dentro ad un corpo sessuato per garantire una visione e uno sguardo alternativo al dominio, al potere e al patriarcato. Non basta essere gay per empatizzare con la differenza e il disagio (il leader olandese xenofobo Pim Fortuyn, ucciso qualche anno fa, era gay); non basta il colore della pelle per stare dalla parte dei deboli (Condoleeza Rice era nera), non basta essere donna per sentire sulla pelle l’urgenza di laicità e uguaglianza (l’on. Binetti, l’on Santanchè sono donne, e mi fermo solo per motivi di spazio).
Quando serve, sia dentro che fuori le vicende elettorali, si tirano in ballo le donne per creare consenso e, a intervalli regolari, nascono e muoiono timide candidature per le alte cariche dello stato.
In un paese dove da oltre 30 anni non si riesce ad approvare una legge che consenta di default l’attribuzione anche del cognome materno alle nuove e ai nuovi nati, e nel quale il patriarcalismo è ancora così radicato, anche a sinistra, tanto che ancora non si vede la luce per chi, omosessuale, voglia sposarsi, fa sorridere che proprio verso al fine della campagna elettorale si tiri fuori dal cappello la proposta di una donna Presidente della Repubblica,come di recente ha fatto l’ex premier Monti.
Due delle madri del percorso antifascista, Tina Anselmi e Lidia Menapace, non hanno mai sfiorato la candidatura a senatrici a vita, e per le più giovani e autorevoli, come Emma Bonino e Rosi Bindi è mancato, e manca tuttora, un consenso radicato e forte dentro il Parlamento e tra le stesse forze dell’arco progressista.
Siamo lontanissime dalla Finlandia, dove nel 2000 Tarja Talonen è diventata Presidente, per non parlare dell’Islanda, dove a capo del governo c’è Johanna Sigurdardottir, lesbica dichiarata.
Quando viene bene in Italia germoglia un certo interesse focalizzato sul generico ‘ascolto’ delle donne, che però non entra nel merito delle questioni di fondo: ci si limita a dire che il genere femminile va valorizzato, ma non si sa perché e su quali presupposti di contenuto e di programma, di visione globale e particolare.
A me cittadina ed elettrice è sufficiente il generico essere di una donna una mia simile perchè io possa affidarle un mandato sui miei interessi e bisogni politici? E chi invoca oggi una donna alla carica di Presidente lo fa perchè convintamente persuaso che il cambiamento di genere, nel simbolico di una carica così significativa, è sintomo della necessità di spazzare via il primato maschile nell’esercizio del potere?
Il 50 e 50 nella rappresentanza, ci insegnano le donne dei paesi nordici e anche alcune esperienze africane, non basta a garantire equità e pari opportunità, perché da sempre nella storia le donne sono state formidabili alleate del potere, e gli uomini di potere hanno usato a loro favore la connivenza di alcune per rafforzare il dominio.
Una donna, sì. La Presidente: sarebbe bellissimo. Ma non una donna purchessia. Una donna che incarni, sostenga e rappresenti la storia della rivoluzione più grande che l’umanità abbia vissuto: quella della conquista della libertà e autodeterminazione femminile. Ragioniamo su questo, ricordando, come sosteneva Rosa Luxemburg, che chiamare le cose con il loro nome è il primo gesto rivoluzionario.