di Cinzia Ficco da tipitosti.com
Raffaella, mamma con la Procreazione assistita
“Ho avuto paura dell’incertezza del risultato, di non essere all’altezza della ricerca, di non reggere davanti al fallimento. Il momento peggiore è stato quando ho vissuto, di nuovo, la sensazione della fine della vita senza la progettualità di un futuro. Ma ce l’ho fatta”.
Comincia così la chiacchierata con Raffaella Clementi, nata a Terni nel ’70, che di recente ha pubblicato un libro: “Lettera ad un bimbo che é nato” (Imprimatur), dedicato a suo figlio, venuto al mondo 22 mesi fa con la Procreazione medicalmente assistita. In questa intervista l’autrice ci parlerà del faticoso percorso che l’ha portata a diventare madre .
Ha pensato subito alla Pma?
In realtà abbiamo perso del tempo prezioso. Io e mio marito sapevamo che la fertilità di una donna decresce con l’avanzare della sua età. Ma io non sapevo che il patrimonio ovarico, presente in ogni donna già dalla nascita, iniziasse a decrescere dai 32-35 anni. Non avevo mai pensato a questa cosa, in modo cosciente, prima di intraprendere il mio cammino.
E, purtroppo, non c’è nessuna spia utile a sussurrarci che la fertilità è seriamente compromessa già prima della comparsa delle irregolarità mestruali, che precedono la menopausa. Io ricorro spesso alla metafora dell’auto: funzioni ancora, ma spesso vai in riserva e non puoi inserire altra benzina, perché hai terminato quella in dotazione dalla nascita. C’è voluto un secondo medico, più scrupoloso del primo, un’analisi più tempestiva prima di ricorrere ad un trattamento specifico che non pensavo di dovere affrontare.
Suo marito è sempre stato d’accordo con lei?
Fortunatamente, sì. Mi ha capita, sostenuta, abbracciata nei momenti bui, senza farmi sentire la sua delusione e le sue paure. E’ stato solidale, anche se in alcuni momenti, forse, avrebbe desiderato non lasciare che la nostra vita fosse assorbita completamente dalla ricerca di un figlio. Lui è stato più bravo a conservare il senso di integrità e identità rispetto alla mia mancanza di spazio mentale oltre il progetto, figlio.
Non ha avuto paura di sottoporsi a terapie tanto lunghe, incerte e dolorose?
Ho avuto paura dell’incertezza del risultato, di non essere all’altezza della ricerca, di non reggere davanti al fallimento. Meno del dolore fisico, meno dei farmaci.
Qual è stato il momento peggiore di tutta quella fase?
Venire a patti con un sentimento simile al vuoto, alla perdita. Il non riuscire ad avere figli evoca sentimenti profondi, a volte simili al lutto. Ho perso mio padre a quattordici anni appena compiuti e conosco il senso di separazione, di abbandono. Il momento peggiore è stato quando ho vissuto, di nuovo, la sensazione della fine della vita senza la progettualità di un futuro. L’assenza del passaggio di un testimone tra l’oggi e il domani.
Quanto è durata la fase più faticosa?
Due anni, più o meno. Con alti e bassi. Cadute e riprese.
Cosa l’ha fatta stare peggio?
L’incertezza e la perdita del controllo sul tempo e sul mio corpo. L’infertilità cambia la percezione delle cose. Da una parte vorresti che il mondo si fermasse, dall’altra, lui continua ad andare avanti per la sua strada e tu fatichi a stargli dietro.
A chi si è affidata in quel periodo?
All’idea di mio figlio. Io sentivo che lo avrei raggiunto. L’idea di lui è stato il motore di tutto.
C’è un ricordo particolare che la fa soffrire ancora oggi?
Sì. Tutti i test negativi buttati nella pattumiera.
Da chi avrebbe voluto maggiore comprensione?
Da nessuno in particolare, dalla vita in generale. Come dicevo prima, la difficoltà ad avere figli ti porta a chiuderti in te stessa, a non raccontare agli altri, parenti e amici, i tuoi sentimenti. Cerchi di eludere le domande, gli incontri. Eviti le occasioni dove ti senti “diversa” e cerchi di declinare gli inviti alle feste di mamme e bambini. Non sopporti chi cerca di ridimensionare il problema o chi banalizza, dando sciocchi consigli. Ma non credo possa esserci comprensione con il segreto.
Chi l’ha delusa?
Chi per primo mi ha fatto perdere del tempo prezioso e la natura con cui ho litigato, per poi farci pace dopo la nascita di mio figlio.
La frase più odiosa che ha dovuto sopportare?
Primipara attempata, espressione usata per descrivere una mamma non più giovanissima. Trovo che sia orribile.
Non ha mai pensato all’adozione?
Ho pensato all’adozione molte volte. L’infertilità ti inchioda davanti a scelte, a cui non avevi mai pensato. Chi vive il crescente desiderio di concepire un figlio e la difficoltà, se non l’impossibilità, di farlo naturalmente, può decidere tra diversi percorsi: ricorrere alla procreazione assistita, all’adozione o decidere di rinunciare al sogno di diventare genitori e vivere senza figli. E ogni scelta comporta coraggio. E’ coraggioso accettare la propria condizione, come lo è intraprendere un percorso di procreazione medicalmente assistita o decidere di intraprendere quello dell’adozione oppure riscegliere il proprio compagno oltre il progetto figlio, reimpostando il senso del vivere con lui e il figlio che non c’è.
Tutti i percorsi sono incerti, imprevedibili in termini di risultati e difficili in termini di equilibri. Noi abbiamo scelto la strada della pma, perché più vicina alla nostra natura. Anche se penso che l’adozione non sia poi tanto diversa dalla procreazione assistita. Una lunga e costosa gravidanza. E il parto è il viaggio per andarselo a prendere, quel bimbo tanto atteso.
Cos’è l’infertilità?
L’infertilità è la malattia del vuoto, appunto. E’ senso di inadeguatezza. E’ sentire di voler dare la vita e non riuscire a farlo. E’ frustrazione, perdita di sé e del proprio compagno. E’ il buio.
<<continua>>