“Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime di mafia”
“Mio padre non lo ricordo. A nove mesi, quando io non camminavo ancora, lui non camminò più. Lo ha ucciso la ‘ndrangheta, ma nel mio paesino, in provincia di Crotone, non si facevano né domande né commenti: i figli maschi erano “educati” alla vendetta, le figlie femmine al silenzio.
Sono cresciuta in un clima di omertà e rassegnazione ma poi, innamorata di un ragazzo che speravo mi portasse lontana da quel mondo, ho fatto la “fuitina”, piena di illusioni. Non ero ancora maggiorenne quando nacque la mia bellissima bambina.
Il sogno è sparito quando ho capito che lui era un criminale, quando mi sono risvegliata in una Milano di sangue, minacce, soldi sporchi e droga, la stessa realtà calabrese, solo più nebbiosa.
Dopo qualche anno, guardando mia figlia, sbocciò, ancora una volta, la speranza: volevo un destino diverso per lei, la leggerezza della libertà. Quando suo padre fu arrestato, pensai che si fosse aperta la porta per uscire in un futuro migliore e così lo lasciai e partii con lei.
Capii però che se davvero volevo chiudere con quel mondo, era necessario trovare “il coraggio di dire no”. Così sono diventata testimone di giustizia, per raccontare tutto ciò di cui ero a conoscenza, e fui ammessa al programma di protezione. Furono sette anni sospesi in vite diverse, identità diverse, luoghi diversi, lontane dalla famiglia e da casa, a volte abbandonata anche dallo Stato. “Non si vive, si sopravvive in qualche maniera. Si sogna chissà cosa fuori, che sia sicuramente meglio, perché niente sarà peggio di quello”.
A Campobasso, dove eravamo nascoste, conducevamo una vita ritirata, ma questa riduzione di movimenti corrispose a una crescita di affetto, conoscenza, complicità tra me e mia figlia.
Ci scoprirono e tentarono di rapirmi e così fummo costrette a lasciare il piccolo appartamento.
Spaventata e senza denaro, raggiunsi il padre di mia figlia, che mi doveva dare dei soldi per lei.
Mi hanno caricata su un furgone e portata in un campo, dove mi hanno torturata, per scoprire che cosa avessi raccontato. Poi, per fortuna, mi hanno strangolata, così non mi sono accorta che mi hanno chiusa in un bidone, per darmi alle fiamme. Era il 24 novembre 2009, avevo 35 anni.
Sono Lea, anzi rea di essermi ribellata alla ‘ndrangheta per cercare di offrire a mia figlia un futuro diverso.
Sono tante le donne uccise dalle mafie, non è vero che esiste un “codice d’onore” che non glielo permette: moriamo per faide, per vendette trasversali, per paura che parliamo, perché abbiamo parlato, per l’impegno politico, perché agenti di scorta, per suicidio indotto o “solo” perché ci troviamo nel luogo e nel momento sbagliati.
La prima “ufficiale” fu assassinata nel 1896 e da allora e dopo di me il numero è enorme: storie conosciute e storie invisibili, storie simboliche e storie dimenticate.”
Fu una donna la prima testimone di giustizia della storia e sono tante le donne che stanno indebolendo le mafie, ma la voglia di legalità deve appartenere a tutte le persone.
Il 21 marzo è primo giorno di primavera e dal 1996 si celebra la Giornata della Memoria e dell’Impegno per ricordare le vittime innocenti di tutte le mafie: facciamo fiorire la cultura di giustizia, di diritto, di dignità, di libertà.
Come Lea Garofalo, e come la sua coraggiosa figlia Denise, costretta ancora – ma questa volta senza mamma – a vivere cambiando identità e città.
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HAi tutto il mio amore e tutta mia forza, Denise. Tua madreè una stella che brucia per milioni di ann, come esempio, sempre. E anche se difficile da credere, non sei sola in questo paese disastrato ed eroico.
Questo racconto mi ha fatto venire la pelle d’oca.
La frase: i figli maschi erano “educati” alla vendetta, le figlie femmine al silenzio, è tremendamente triste e purtroppo maledettamente vera.
Io vivo in un’altra realtà, lontana da queste dinamiche, per fortuna!