di Maria Pia Ercolini
“Via della Costituente, Piazza della Repubblica, Corso Garibaldi, Via Roma, Via Cavour, Via Michelangelo, Piazza Dante, Via San Francesco. Le strade ci riconducono con i loro nomi, al comune patrimonio culturale, ricordandoci artisti, letterati, santi, politici, scienziati, etc… ed è giustamente impossibile ed inefficace stravolgere questo impianto, sia nel senso squisitamente tecnico che culturale. Tranne i casi delle sante e delle benefattrici (mai comunque paragonabili per numero agli uomini), le tracce delle donne si sono perse. E più i quartieri sono moderni e di recente costruzione, più – paradossalmente – si nota l’assenza di nomi di donne. Eppure sono esistite, ma non trovando un posto nelle nostre città, sembrano non avere il ruolo di personaggi di riferimento, di modelli a cui rifarsi, di valori su cui riflettere per accettarli, negarli o trasformarli. Le donne della nostra storia non riescono a divenire simboli della cultura e della civiltà in cui viviamo. Tranne che per qualche rara eccezione che conferma la regola. Anche le targhe stradali sono dei simboli appunto, ed incidono con forza sul significato che attribuiamo alla nostra esistenza. I nomi delle vie, delle scuole, degli ospedali, dei parchi, ci rimandano conferme o negazioni su ciò che sentiamo e pensiamo su noi stesse e sugli altri”.
Così scrive Mary Nocentini nella sua Premessa al volume Sulle vie della parità (Universitalia, 2013).
E come possiamo darle torto?
Quando pensiamo ad esempio a via dei Mille, tanto presente nella toponomastica delle nostre città, quale immagine ne traiamo se non quella di un contingente di uomini partito per annettere le Due Sicilie al Regno d’Italia?
In quanti/e sappiamo che nella spedizione ci fosse anche una donna? Ancora una volta il maschile inclusivo della nostra lingua nasconde la presenza femminile e impedisce la comprensione della realtà nella sua interezza.
Della savoiarda, Rose Montmasson, prima moglie di Francesco Crispi, imbarcata sul “Piemonte” in camicia rossa e abiti maschili, per rendere italiana la Sicilia, non si parla. Una targa la ricorda a Firenze, nella sua casa di via della Scala, ma nell’isola che l’ha vista combattere e assistere “gli eroi” nessuna targa, né strada la riporta alla memoria. Rosalia, del resto, è condannata alla damnatio memoriae dal suo stesso marito, che l’ha ripudiata per sposare la figlia di un magistrato borbonico. Una lavandaia, figlia di padre ignoto, conosciuta nel carcere dove era stato rinchiuso, non era adeguata alle ambizioni di un ormai celebre politico, che preferisce essere accusato di bigamia. Eppure era stato un grande amore che li aveva portati a un matrimonio segreto a Malta, perennemente in fuga dalla polizia. Per dieci anni Rose, aveva coperto, mantenuto, protetto Francesco. La presenza di Rose, nella spedizione garibaldina fu determinante: pronti ad imbarcarsi, i Mille attendono una conferma dalla Sicilia, che assicuri l’appoggio dei leader del popolo e degli ufficiali borbonici. La garanzia non c’è, ma in molti, fra cui Crispi vogliono che quella spedizione si faccia. Rose, allora, parte per la Sicilia da dove invia un telegramma capace di convincere Garibaldi a salpare; poi raggiunge la Sardegna e, travestita da uomo, attende a Quartu l’arrivo della nave su cui imbarcarsi. A Calatafimini, recuperata la sua identità, si straccia le vesti per farne bende e si copre con il tricolore. I Siciliani, che la chiamavano Rosalia, come la loro santa, l’hanno dimenticata.
E che dire di Antonia Masanello, coraggiosa garibaldina a sostegno dei Mille che, facendosi passare per un uomo, combatte con merito, tanto da ottenere il brevetto di caporale e il congedo con onore dopo la capitolazione della fortezza di Gaeta? Una breve vita la sua, tutta spesa all’insegna della lotta per la liberazione dagli oppressori e dal conformismo. Aveva appena quindi anni quando partecipò alle rivolte studentesche padovane, ne aveva ventisette quando lasciò Modena per arruolarsi sotto mentite spoglie al fianco delle camicie rosse e combattere contro l’esercito delle Due Sicilie, inquadrata nel terzo reggimento della brigata Sacchi.
Non aveva ancora compiuto trent’anni quando la tisi la uccise.
Dopo la sua morte, un lungo articolo di un giornale fiorentino, Lo Zenzero, raccontò le gesta della Tonina Marinello e le aprì le porte della celebrità, che raggiunse lontane mete: The Daily True Delta, quotidiano di New Orleans rievocò, fra cronaca e leggenda, le gesta di questa eroina.
Oggi riposa nel cimitero fiorentino di Trespiano, all’ombra del tricolore, tra le sessanta tombe di garibaldini; sulla sua lapide campeggia uno stornello del 1862, scritto da Francesco Dell’Ongaro e musicato da Carlo Castoldi:
“L’abbiam deposta, la Garibaldina all’ombra della Torre di San Miniato con la faccia rivolta alla marina perché pensi a Venezia, al lido amato. Era bionda, era bella, era piccina ma avea cor di leone e di soldato. E se non fosse che era donna le spalline avria avute e non la gonna e poserebbe sul funereo letto con la medaglia del valor sul petto. Ma che fa la medaglia e tutto il resto? Pugnò con Garibaldi, e basti questo!”.
La biblioteca comunale di Cervarese la ricorda con una scultura in terracotta di Piero Perin: riccioli al vento, fermati dal cappello alla garibaldina, bandiera al fianco.
Eppure Masenella, è ancora del tutto estranea alla memoria odonomastica del Paese: Antonia non ha una sua strada né in Contrà della Fossona, dove nacque, né a Modena, dove visse diversi anni costruendo mastelli da bucato, né a Firenze, dove morì.
Molte le donne che in vario modo parteciparono all’impresa garibaldina: infermiere, finanziatrici, sarte, ausiliarie, giornaliste…
Valga, come icona, quel quadro di Odoardo Borrani che ritrae un gruppo di signore intente a cucire bluse rosse in un salotto (Le cucitrici di camicie rosse).
A Catania ci fu Giuseppa Bolognani, nota come “Peppa ‘a cannunera”, a dar filo da torcere al regno borbonico. Le sue gesta, celebrate anche dalla stampa straniera, meritarono una medaglia al valore e una pensione. Oggi ha un monumento a Barcellona di Gotto, dove è nata, e una strada molto periferica a Catania, dove ha combattuto.
Tra le straniere, basta per tutte il nome di Jessie White Mario.
Davvero tante le ammiratrici dell’eroe dei due mondi, che oggi dà nome a 5.472 strade e piazze italiane.
La memoria e il riconoscimento passano da quelle incisioni.
Scrive al suo idolo la contessa piemontese Maria Martini Giovio della Torre, ribelle figlia del conte Carlo Camera di Salasco:
“In qualche angolo della vostra Caprera, sopra una roccia, fate scrivere il nome di Maria. Esso vi farà sovvenire di chi vi amò al di sopra di ogni cosa”.
Anche l’amore si esprime in un nome.