Il caso Amina, la giovane blogger diventata prima oggetto di minacce e poi a tutt’ora scomparsa per aver postato su un social network delle foto di protesta in stile Femen, è solo l’ultimo eclatante caso di una condizione femminile che al di fuori della avanzata società occidentale, dove come minimo le donne hanno gli strumenti legali per far valere i propri diritti, spesso è ancora ferma a condizioni ottocentesche, se non peggio. E di fronte a questi diritti elementari negati, e Amina non è nemmeno il caso più grave perché altri e più forti delitti si perpetrano contro le donne quotidianamente, cresce la nostra rabbia, la voglia di fare qualcosa. Sì, ma cosa?
La società informatica ha creato un effetto estremamente straniante. Grazie ad Internet e alla velocità della comunicazione abbiamo l’impressione di essere dappertutto, di far parte di realtà poste a distanza di migliaia di km da noi, senza però avere sulle cose il potere di intervento che abbiamo su ciò che ci circonda fisicamente. I sentimenti che proviamo di fronte ai fatti, sono gli stessi, hanno la stessa potenza, ma la nostra capacità di intervenire, no.
L’unica arma a disposizione è quella della mobilitazione, un’arma spuntata anche se a volte ha effetto, o ci da l’impressione di averlo avuto perché fenomeni che passati sotto silenzio avrebbero proseguito per strade tragiche, si risolvono invece positivamente. Ma sono, appunto casi limitati, rari, niente in confronto a quanto ci sarebbe veramente da fare.
Inoltre applicando una forte dose di cinismo, si potrebbe aggiungere che con le energie impiegate in questi sforzi nei nostri paesi, per quanto la condizione femminile, lo ripetiamo, sia incomparabilmente superiore, si potrebbero comunque ottenere ulteriori passi avanti.
Per contro, abbiamo ben chiaro il valore simbolico che le mobilitazioni di massa hanno. In primo luogo sul morale delle donne che abitano paesi nei quali i loro diritti non sono riconosciuti, per non dire che sono inesistenti. È un modo per dare loro speranza, forza, per far loro capire che non sono sole e che vale la pena di lottare, prima o poi cambierà anche lì. Poi, anche sul nostro, di morale, perché fare le cose belle serve quanto fare quelle importanti. E infine quando le mobilitazioni sono riuscite sono anche una bella dimostrazione di forza, un modo per ribadire che con le nostre donne sui diritti non si può più scherzare.
Peccato che alla fine resti questa amara sensazione di amaro in bocca, la coscienza di far parte di una specie di paese di bengodi avulso dalla vita vera. Un po’ quello che proviamo quando vediamo le immagini tremende dei bambini che soffrono la fame nei paesi del terzo mondo, magari proprio mentre ormai sazi stiamo trangugiando l’ennesima forchettata di qualcosa solo perché, oh, è proprio buona.
Compressi in questa pochissimo piacevole condizione, stretti fra i risultati che si contano con il contagocce nonostante gli sforzi e il desiderio di intervenire realmente in modo massiccio, alla fine torniamo alla domanda posta all’inizio: che fare?