Oggi, ho coniato un sostantivo nuovo: il “femminicismo”, che da quanto è nuova, la parola, il correttore word me la segna in rosso comunicandomi che “non è stata trovata nel dizionario ortografico”. Beh, sì, la parola in effetti è inedita, l’ho inventata adesso, ma la storia è vecchia quanto il mondo! Tanto abbiamo ormai parlato, io in primis, di femminicidio, ma va dato atto che di atto estremo si tratta. Cioè, prima di arrivare ad ammazzarci, bisogna passare tutta una lunga trafila di comportamenti e di proponimenti che, appunto, ho voluto racchiudere in una parola sola. Dunque, il femminicismo non sarebbe altro che quella guerra-in-pace, la quale, senza scomodare né Tolstoj né Kundera, racchiude in sé tutta l’insostenibile leggerezza dell’essere femminile.
Perché siamo in guerra, ragazze, o donne o bambine o femmine tutte: di ciò bisogna prendere coscienza.
Guerra: sostantivo singolare (per ironia della sorte) femminile, seppur dalla valenza tutta maschile. Che fa emergere come in molti, troppi casi la violenza di genere, esaltata in tempo bellico – non dimentichiamo neanche questo – trovi comunque la propria genesi nel quotidiano. In quella che viene definita pace, quindi, altro sostantivo femminile. Un quotidiano che continua a rifarsi alla legge della foresta, per cui vince il più forte fisicamente. Guerra, quindi, in quanto conflitto, come ci insegna qualsiasi vocabolario, confronto armato (ben si badi che non serve il patriot e tanto meno il tank perché un uomo possa sopraffare una donna: bastano le parole, le mani e il ricatto economico, sempre di armi si tratta, seppur meno convenzionali) al quale si arriva quando il contrasto che ne è alla base non trova una soluzione pacifica (leggi: dialogo, conciliazione).
Ed è lo stesso vocabolario che ci rende edotti sul fatto che, comunque, qualsiasi guerra è preceduta da un periodo di tensione che, poi, sfocia nella cosiddetta crisi. Stando a ciò, abbiamo quindi il femminicidio = guerra = omicidio, preceduto dal femmincismo = periodo di tensione = insulti, ricatti, minacce fisiche e verbali. Femminicismo, quindi, come guerra non armata, che non produce morte all’istante, ma è altrettanto subdola e impertinente. Della quale tutti sanno, pochi ne parlano, ancor meno ne sono a conoscenza o, nel migliore dei casi, si girano dall’altra parte. Che almeno alcuni ne continuino a scrivere. O, meglio, alcune, come in questo caso.
WOMEN@WORK se ne è presa la briga, partendo dal presupposto, ormai acclarato e che delle autrici che ne fanno parte è diventato il portabandiera, secondo il quale la scrittura è un talento e pertanto chi ne goda, anche inconsapevolmente, sia poi portato coscientemente a farlo proprio. E, quindi, a metterlo al servizio, questo stesso talento, di chi invece non abbia la possibilità di usufruirne.
Scrittura come catarsi? Forse…
Scrittura come testimonianza? Sicuramente!
E, dulcis in fundo, scrittura come arma. Arma di denuncia di precisione.
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